Dalla poesia alla prosa, uno sport che non sa più raccontarsi

Mag 24, 2024 | Opinioni

Manca tutto a questo sport che spreme i suoi protagonisti. L’ultimo caso emblematico è quello del tennis: non si compete se non ci si sente sovrumani. E addio al romanticismo delle imprese eroiche, perché non è più una gara ma uno show


Jacopo Casoni, giornalista professionista, nell’arco della sua carriera si è occupato di tanti temi, dallo sport alla politica, passando per la cronaca e il racconto della città di Milano. Dal 2008 fa parte della redazione di Telenova e dal 2016 collabora anche con testate locali, prima Segrate Oggi e poi il Giornale di Segrate.


C’era una volta uno sport che raccontava storie, che ispirava proprio in virtù di quelle storie che parlavano di resilienza. La spalla lussata di Beckenbauer all’Azteca, iconico pur nel suo uscire a testa bassa dopo il trionfo azzurro, tanto che Pelè in “Fuga per la vittoria” lo copiò pari pari aggiungendoci una rovesciata.

Uno sport più umano

Carriere date per perse e rinate di colpo: da Pantani azzoppato dal destino, tra gatti neri che attraversano la strada e auto che appaio di colpo a dispetto dei divieti; a Hermann Maier distrutto da un incidente, senza speranza e con una gamba maciullata. Dopo vinsero tanto, tutto. E di eroi dello sport ce ne sono in quantità, di atleti che hanno gareggiato sul dolore, oltre il limite. Il sottoscritto ha dedicato un libro a queste imprese e alle donne e agli uomini che le hanno firmate: il titolo era “Il destino è solo una scusa”. Ma era un altro sport, più umano a dirla tutta. Già, perché oggi non c’è spazio per queste storie; oggi chi non è al top, chi zoppica appena un po’, non può gareggiare in questo mondo di automi o giù di lì.

Non si compete se non ci sente invincibili

L’ultimo caso emblematico è quello del tennis. Abbiamo vissuto gli Internazionali d’Italia più surreali della storia: un forfait al giorno, quando andava bene. Sinner alle prese con un fastidio all’anca (manco avesse 80 anni e l’artrosi), Berrettini che in conferenza stampa parla di “sensazione che possa succedere qualcosa”. E poi uno via l’altro. E non si gioca, non si compete se non ci si sente sovrumani, invulnerabili, invincibili. Addio al romanticismo di quelle imprese eroiche, addio allo sport metafora della vita e pronto a nobilitare, facendola assurgere agli onori della cronaca (seppur sportiva), quella capacità di andare oltre gli ostacoli, quel destino da scansare a spallate.

Senza voler affrontare il tema della tecnologia imperante, in alcune discipline per… costituzione (come l’automobilismo, che di Senna conserva un ricordo troppo lontano), dal calcio al tennis appunto c’è anche un tema di calendari. Troppe gare, troppo ravvicinate, per quanto riguarda il pallone. Troppe e basta, nell’arco di una stagione, per i campioni della racchetta che non possono dire di no agli sponsor che li strattonano da Dubai a Melbourne, da un giorno all’altro o quasi.

Il professionismo allo stato puro o il business al potere?

La risposta è semplice, basti pensare ai diritti televisivi e ai petroldollari che spostano eventi (la Supercoppa italiana ce la giochiamo in Arabia) e attirano campioni logori ma anche giovani virgulti che fuoriclasse non diventeranno mai, zavorrati dal portafoglio gonfio a dismisura. Non è più una gara, è uno show. Non c’è più quel momento che rivoluziona una storia, quel guizzo inatteso e per questo scintillante, quella vittoria che non ti aspetti e che nessuno si sarebbe aspettato, quella smorfia che è dolore e gioia insieme, stupore totale. No, ci sono le copertine patinate preparate con mesi di anticipo, la monotonia di successi scontati, una sorta di strada tracciata da altri e altrove. E la resilienza è confinata nell’alveo degli atleti disabili che attraverso lo sport hanno superato drammi veri, gambe perse, sensi andati. Una discriminazione anche questa, a dirla tutta.

Dalla poesia alla prosa

Manca tutto a questo sport che non sa raccontarsi, che è prosa e non poesia, che spreme i suoi protagonisti. Che è corrosivo, come acido muriatico sulle articolazioni. Manca il coraggio di mettersi alla prova, comodo com’è tra i due guanciali del profitto e della notorietà. Comodo perché ad accontentarci siamo noi che questo sport seguiamo come un gregge al pascolo, sulle tracce vacue di un profilo social, popolo ormai senza memoria e senza pretese.

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