Jacobs e Ali, specchio di un’Italia che (ancora) non sa riconoscersi

Giu 21, 2024 | Opinioni


Jacopo Casoni, giornalista professionista, nell’arco della sua carriera si è occupato di tanti temi, dallo sport alla politica, passando per la cronaca e il racconto della città di Milano. Dal 2008 fa parte della redazione di Telenova e dal 2016 collabora anche con testate locali, prima Segrate Oggi e poi il Giornale di Segrate.


In alto, Marcel Jacobs e Chituru Ali festeggiano la doppia medaglia europea a Casa Italia (Foto Fidal)

Uno accanto all’altro, davanti a tutti. Un rettilineo tutto azzurro: con Marcel che ritrova il ritmo e il sorriso; con Chituru che va veloce come nessun italiano, a parte quello lì 4 centesimi distante. Jacobs e Ali, 9”92 e 9”96. Meglio di Roma, a livello cronometrico, perché il risultato dell’Europeo era stato il medesimo. E potremmo anche fermarci qui, aspettando Parigi e promesse che sembravano lontane, già tradite visto l’incedere zoppicante di un campione olimpico destinato ad abdicare. Parigi che adesso è un’alba bellissima, una speranza che riprende quota e colora la punta della Tour Eiffel. Potremmo fermarci a due frecce tricolore decollate giusto in tempo per colorare il cielo al momento giusto. Ma c’è dell’altro, tanto altro.

Dal meeting finlandese di Torku spunta un’aurora tutta nostra, bella e orgogliosa, splendente a dir poco. È in quell’abbraccio tra due italiani doc, due che l’Italia la portano sul petto, vicino al cuore. Due ragazzoni che vengono dal Nord, un po’ profondo e un po’ no, con un accento veneto e uno comasco. Jacobs che taglia il traguardo e si lascia dietro un sospiro di sollievo, una consapevolezza ritrovata, una forza che raddrizza la schiena e fa fiero lo sguardo. Ma è un attimo. Perché tutto il suo rettilineo finisce dentro lo sguardo incredulo di un altro italiano che lo cerca, lo trova e poi lo molla quando capisce di dover saltare di una gioia nuova, di un cento metri sotto i dieci secondi. E Marcel se la gode quasi fosse roba sua, rifila una pacca su quella spalla un gradino più su della sua, festeggia Chituru e lo lascia andare, lo segue con uno sguardo che è fraterno, roba perfino diversa e più intensa rispetto alla staffetta di Tokyo, il massimo della felicità condivisa fino a quel momento.

Qui c’è dell’altro, appunto. C’è una storia che va oltre la sua ma alla sua si accompagna. Lui, Marcel, nato a El Paso da padre texano e mamma italiana; lui che gli States li ha lasciati che non aveva neppure un mese di vita, ma se li porta sulla pelle. Ali invece in Italia ci è nato, ma da mamma nigeriana e papà ghanese, cresciuto nella provincia comasca affidato a una famiglia di lì. Seconde generazioni diverse, italiani nuovi e belli allo stesso modo. Ora che sono storie di successo, vestite d’azzurro. Ora che sono eroi, già certificati o potenziali, di un’atletica che a Roma ha raccontato se stessa in modo emblematico: quattro ori e due argenti sono al collo di azzurri che hanno origini in un altrove che tale non è.

Un’Italia multietnica che è semplicemente l’Italia di oggi, al netto di tutto ciò che si fa fatica a raccontare. La medaglia è nostra, sono nostri i ragazzi e le ragazze che la portano in dote; poi però, passata la sbornia di una festa istintiva, c’è ancora chi fa dei distinguo. Chi storce il naso perché “non sono proprio italiani”, denunciando un razzismo latente che l’Italia prova a negare salvo poi specchiarcisi dentro, tra stadi beceri e campioni sbigottiti anche nel calcio che dello Stivale è la passione sportiva per eccellenza. L’interista Thuram ha voluto tornarci su durante un altro Europeo, quello del pallone. Ne ha voluto riparlare dopo la solidarietà a Maignan per gli ululati di Udine e la presa di posizione politicamente scorretta, per così dire, in occasione del caso Acerbi-Juan Jesus.

È un’Italia che da chi arriva da oltre confine è vista con un sospetto legittimo, ma è anche un’Italia che non sa capire i propri figli. Perché Marcel e Chituru sono italiani, il primo addirittura nel 2015 non ha voluto rinnovare il passaporto statunitense perché di patria ne ha una sola. Italiani veri, che l’Italia portano in alto, sulla cima del mondo e dell’Olimpo. Italiani che hanno trasformato un’atletica che navigava a vista, raccoglieva ciò che poteva, in una potenza mondiale. Italiani che l’Italia della pista e non solo la stanno trainando, portando a un livello superiore anche chi quel cielo lo guardava dal basso. E chi non si rende conto di quanto slancio diano loro e gli altri al nostro sport forse dovrebbe levarsi di dosso i pregiudizi, smetterla di raccontare una storia di tempi andati, grazie a Dio.

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