di Luisella Mattiace | Coordinatrice servizi educativi ed esperta valorizzazione risorse umane
“Vi suoneranno alla porta, aprire o no quella porta è fondamentale per i chierichetti che parteciperanno alle fantabenedizioni. Se aprite e dite sì: più 2 punti nella classifica generale, se aprite e non volete la benedizione: più 1, se non aprite, 0 punti; se poi aprite e tossite: più 1; se starnutite: più 2; se in casa ci sono uno o più bambini: bonus di più 1; se aprite e avete gli occhiali da vista: più 0.5; se offrite delle caramelle: più 1 e via così”.
Fantabenedizioni e dintorni
Ecco comparire sulla scena, dopo il fantacalcio e il fantasanremo, anche le fantabenedizioni, che mancavano all’appello.
Don Roberto Fiscer le ha introdotte nella sua comunità parrocchiale per reclutare chierichetti e rendere il momento più attraente per chi lo propone e per chi lo riceve. Un modo per rendere giocoso e allegro, dice il parroco, il momento delle benedizioni alle case e alle famiglie del quartiere.
Ora, al di là delle buone intenzioni, relative al fatto che coinvolgendo dei bambini in questa pratica si cerca di renderla più leggera e giocosa, forse è bene riflettere circa il messaggio che tale scelta veicola, soffermandosi sul senso della proposta e sull’idea dei bambini che ne traspare.
La ricerca dei linguaggi e lo sforzo comunicativo
Sempre più spesso, anche in ambito religioso o parrocchiale, si cercano linguaggi e modalità comunicative che si ritengono adeguate e prossime a bambini e ragazzi, per rendere più immediate e accessibili proposte che vogliono avere un valore spirituale, per diffondere e promuovere esperienze e valori, molti dei quali, prima ancora che religiosi e praticati in ambito oratoriano o parrocchiale, sono umani in senso ampio: il rispetto dell’altro, l’accoglienza, l’attenzione ai più poveri e a chi si trova in difficoltà, etc.; o ancora, per rendere all’apparenza più comprensibili i gesti connessi alla liturgia, alla vita comunitaria, al rito religioso, etc. Quindi ecco il proliferare di messaggi attraverso i social, di pensieri che diventano slogan o addirittura canzoni pop.
Il gioco sempre e comunque
Tali linguaggi possono essere un mezzo, ma il mezzo comunica un messaggio e un contenuto: cosa, comunicano, dunque, le fantabenedizioni? Giocarci sopra può essere un’idea, ma allora è un gioco, e se vuole essere un gioco educativo, educa davvero a ciò a cui intende educare? Preserva davvero il senso dell’esperienza che vuole proporre?
E ancora, è limitativo pensare che le nuove generazioni possano cogliere e quindi scegliere il valore e il senso per sé di un’esperienza, di un gesto, connesso ad un valore simbolico o spirituale, solo se si trasforma quell’esperienza in un gioco a punti e in una competizione.
Dolcetto o scherzetto?
Le fantabenedizioni sembrano richiamare alla memoria la pratica del cosiddetto “dolcetto o scherzetto” di importazione halloweeniana. Ma è su questo che si vuole che chi bussa alla porta delle famiglie, e chi sceglie se aprire e ricevere quel gesto, ponga il centro della sua attenzione?
Niente di grave, non è una questione così importante. Il gioco introduce una dimensione gioiosa, che i bambini potranno ricordare, dice il parroco.
Il punto, però, è un altro: non è tanto la scelta del mezzo comunicativo in discussione, quanto il fatto che il mezzo parla di un contenuto e del significato che si vuole comunicare, così come dice qualcosa di chi lo comunica e dell’immagine che si ha dei destinatari del messaggio.
In questo caso, si rischia forse di svuotare o alterare il senso del proporsi ad una famiglia per portare a chi lo desidera un gesto simbolico di cura o “benedizione”, secondo i valori della tradizione religiosa.
La libera adesione e la consapevolezza
Questa proposta, se pensiamo ai bambini invitati a partecipare, può essere il frutto di una scelta libera e via via più consapevole, della capacità di un bambino o ragazzo di dare senso a un gesto, ad una pratica, ad un’esperienza, che può anche essere fuori dal coro, originale, non comune, ma che non necessariamente deve essere promossa rendendola più digeribile al fine di suscitare un consenso diffuso, appiattendo però le naturali domande, le resistenze o i dubbi che potrebbe suscitare. Questi sono il prezzo di una libertà vera, di una coscienza che matura e che diventa capace di scegliere se partecipare, se fare propria, un’esperienza di questo tipo, oppure no, ma prendendola e per quello che è, senza bonificarla o alleggerirla a prescindere, e senza cambiarne il significato. E se la proposta non parla a bambini e ragazzi forse non è perché hanno bisogno di trasformare tutto in una competizione leggera, o di non pensare a ciò che fanno e al perché scelgono o meno di farlo.
La forma è sostanza
Forse bisogna avere più coraggio nelle proposte, di qualunque genere e segno siano, e differenziare i linguaggi. Altrimenti tutto si omologa: un prodotto da promuovere e da vendere diventa uguale a un valore sociale, a un contenuto etico, a un’esperienza di fede, e così via.
I bambini, i ragazzi, sono più competenti di quanto si pensi; sono capaci di esercitare un pensiero, la propria libertà, la propria originalità, il proprio impegno; sono capaci di fiducia, di vivere un’esperienza anche senza comprenderne l’immediato significato, se ha a che fare con valori che, se ci si crede, hanno un senso più profondo.
Se li guardiamo così, forse riusciremo a scegliere meglio i mezzi e i linguaggi attraverso cui veicolare o meno esperienze e proposte che vogliono trasmettere loro dei valori, e magari risulteremo anche più credibili, ricordando che la forma è sempre anche sostanza.