Due ragazze, due donne, nate e cresciute quasi nello stesso angolo di mondo. Unite dalle stesse origini, dalle stesse passioni. Sono entrambe di etnia hazara. Un tempo, da quelle parti, gli hazara erano maggioranza. Non solo etnica ma anche culturale. Poi, lungo i decenni, gli hazara sono stati gradualmente emarginati, scacciati, sterminati. Siamo in quel pezzo di mondo che sta tra Afghanistan, Iran e Pakistan. Un tempo gli Hazara lo dominavano, l’Afghanistan. “Gli eredi di Gengis Khan”, dicevano gli inglesi. Infatti spesso hanno gli occhi a mandorla a tradire la loro origine mongola. Un’etnia che negli ultimi decenni sconta il ‘difetto’ più grande: sono sciiti.
Anche per questo devono fuggire, scappare.
Due ragazze, due donne, perseguitate. L’una ancora nella sua terra nativa, l’Afghanistan, l’altra in Pakistan dove la sua gente ha trovato un rifugio provvisorio.
Due ragazze, due donne, che condividono una grande passione comune: lo sport. Il calcio, in particolare.
Si chiamano Nazira e Shadida.
Nazira è viva, Shadida è affogata davanti alle coste italiane nell’ennesima strage di migranti, la più recente, quella che sarà ricordata come la strage di Cupro e che segue altri ‘massacri invisibili’ come quello di Lampedusa del 2013.
Nazira, più giovane, è riuscita a scappare dai talebani dopo che l’Occidente, tradendo le promesse, è fuggito a gambe levate dal Paese abbandonando proprio coloro che più si erano resi protagonisti di un cambiamento possibile.
Shadida era sposata, era una madre. Poi il divorzio, una vita difficile da madre abbandonata, la scelta di cercare una vita migliore in Europa.
Amano lo sport, amano il calcio.
Per Nazira è un sogno che si avvera. Per Shadida un sogno che affoga davanti a una spiaggia calabrese.
Nazira fugge dall’Afghanistan il 23 agosto del 2021 mentre centinaia di suoi connazionali cercano di aggrapparsi, letteralmente, agli aerei americani in fuga. Arriva in Italia grazie a un corridoio umanitario insieme agli allenatori della squadra di calcio in cui si allenava. Non una squadra qualunque, la Nazionale. Per poter giocare in Nazionale da Bamyan si era trasferita a Kabul. In Afghanistan Nazira ha frequentato la scuola superiore e aveva completato gli esami per l’accesso all’università, avrebbe dovuto studiare giornalismo. Lavorava nell’organizzazione degli USA Freetorn e si occupava di aiutare le donne in ambito sportivo. Anche la famiglia di Nazira era inserita nel piano di evacuazione per giungere in Italia ma i familiari non sono riusciti a lasciare il paese. La casa della famiglia di Nazira a Bamyan è attualmente occupata dai talebani, che la utilizzano come base per un loro ufficio anagrafico locale. La famiglia è dovuta fuggire in Iran. Ora cerca in ogni modo di ricongiungersi con loro, ma non è facile.
Shadida era soprannominata Chintu ed era partita da Quetta, in Pakistan. Più grande di Nazira, aveva 27 anni e una bambina. Giocava, come calciatrice, da otto stagioni nel Balochistan United, una squadra di Quetta che punta su integrazione di etnie e religioni. Giocava per contribuire al sostentamento della sua famiglia: per ogni vittoria potevano arrivare dai 17 a 100 dollari.
Non sappiamo ancora quando ha lasciato il Pakistan, cosa ha dovuto affrontare e subire per arrivare in Turchia per poi imbarcarsi su quella maledetta nave.
Sappiamo però come è andata a finire. La sua famiglia avrà almeno una bara con un nome e un cognome sopra, fortunati più di tanti altri nell’immensa tragedia di questa ennesima strage, di questi viaggi disperati cui sono costretti (costretti, sia chiaro) da leggi e norme di una Europa sempre più cinica e cieca, sempre più incattivita, disumana, atrocemente razzista.
Perché per decine di uomini e di donne non ci sono bare, nomi, passioni, sogni: solo l’indifferenza dove li abbiamo affogati.