Stefania Campagna lavora da molti anni in ambito sociale e si occupa, nella sua qualità di coordinatrice, di progetti di inclusione pensati per persone provenienti da Paesi Terzi
Possedere una casa oggi resta uno dei principali desideri dei cittadini italiani ed europei; forse per cultura, per tradizione, perché siamo stati cresciuti con il mito della casa come elemento di equilibrio e stabilità per la persona e per la famiglia. Ma qual è la reale situazione che oggi viviamo in Italia? È un sogno ancora raggiungibile? E quali sono i limiti del sistema? Se diamo un’occhiata ai dati europei, possiamo notare una differenza lampante: l’Europa orientale (Kosovo, Albania, Romania) ha un tasso di proprietà del 95%, contro le percentuali quasi dimezzate di alcuni paesi dell’Europa occidentale, come Germania e Svizzera, rispettivamente al 49,1% e al 42,2%. E l’Italia? Si posiziona in mezzo con il 73,7%.
Alloggi pubblici, Italia fanalino di coda
Quali sono i fattori che influenzano questi numeri? In primis c’è ovviamente il prezzo delle case. Ci sono poi stile di vita, cultura e disponibilità (o necessità) a spostarsi per lavoro a influenzare l’opportunità dell’acquisto una casa, sebbene questi dati restino poco misurabili. Dobbiamo poi fotografare la situazione degli alloggi pubblici, che influenza in modo significativo la possibilità d’accesso a un immobile. Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito, secondo l’ultimo report del Parlamento Europeo, beneficiano di un notevole intervento statale, con una spesa che supera il 3% del Pil. Una quota molto superiore a quella investita in Italia, che vale all’incirca l’1%. Tradotto, nei Paesi Bassi le “case popolari” sono il 37% sul totale delle abitazioni, in Francia il 16,8% e in Italia appena il 3,8%.
650mila in lista d’attesa: la casa popolare è un miraggio
Secondo i dati di Federcasa – che raggruppa 84 enti e aziende che costruiscono e gestiscono abitazioni di edilizia residenziale pubblica – le case popolari in Italia sono circa 800mila e ospitano poco più di 2 milioni di persone, molte meno di quelle che ne avrebbero necessità o diritto. E rimaniamo molto indietro rispetto allo scenario europeo. Sempre secondo Federcasa, sarebbero infatti 650mila le domande di casa popolare in attesa e conseguentemente 1,2 milioni i nuclei familiari in affitto con privati che sono costretti a vivere in una condizione di “disagio economico acuto”.
Un patrimonio edilizio pubblico insufficiente e non al passo coi tempi
Di fronte a questo enorme bisogno che resta senza risposta, il 7% del patrimonio di edilizia popolare è ad oggi sfitto. Si pensi semplicemente a tempi di assegnazione: a Milano fra chiusura del bando e consegna dell’appartamento passano circa 9 mesi, durante i quali quello specifico alloggio resta vuoto. Sono inoltre da tenere inoltre le peculiarità del patrimonio edilizio pubblico che non si incrociano più facilmente con la composizione di una società diversa da quella di cinquant’anni fa: per fare un esempio, a Roma oltre 13mila famiglie in lista d’attesa per un alloggio popolare sono composte da una o due persone, a fronte di case che negli anni ‘70 sono state progettate per nuclei ben più grandi.
Inquilini e debitori ai raggi x (e la prognosi spesso è infausta)
Per ragionare su esperienze pratiche, è ciò che verifichiamo con i beneficiari delle nostre strutture di accoglienza al momento dell’uscita. Si tratta di persone residenti sul territorio e possiamo affermare anche con un buon livello di integrazione e autonomia grazie a un rapporto di lavoro duraturo, spesso a tempo indeterminato, e la conoscenza dei servizi. Spesso le domande per una casa popolare vengono predisposte a ridosso della conclusione dei progetti di accoglienza, ma quasi sempre si concludono senza successo. E le persone che assistiamo – ma questo discorso si applica anche a tutti coloro che non sono passati da strutture di accoglienza, italiani o stranieri – sono così costrette a cercare soluzioni alternative con ostacoli importanti: le garanzie da presentare.
Partiamo dall’opzione dell’affitto: bisogna dimostrare di avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato, ma non basta. Serve infatti avere liquidità sufficiente per almeno tre mensilità anticipate e quasi sempre sono richieste delle referenze. Ma come è possibile avere tutti questi requisiti per un giovane al primo impiego, uno studente universitario o un rifugiato politico? Serve un garante. E se non ci fosse? Addio a un alloggio in affitto
E l’acquisto di una casa? Al netto dei prezzi, in Italia inaccessibili o quasi soprattutto per le città (basti pensare a Milano o hinterland), come nel caso degli affitti ci sono requisiti a dir poco rigidi. Innanzitutto c’è la caparra da versare, con importi molto altri, servono poi garanzie per ottenere un mutuo e cioè un lavoro a tempo indeterminato. E se il soggetto non avesse uno di questi requisiti, seppure in presenza di un’adeguata entrata mensile? Anche in questo caso, la speranza di ottenere un’immobile muore subito.
La precarietà abitativa e il fenomeno delle occupazioni
Tutti questi ostacoli nel sistema creano precarietà. E se affermare che il disagio abitativo italiano sia generato solo da questi fattori sarebbe forse esagerato, è possibile rilevare che esistono problemi strutturali in Italia ben lontani dall’essere risolti. Sempre più frequentemente sui media sentiamo parlare di case occupate. A essere occupati sono di solito alloggi vuoti o con un inquilino assente per un periodo di tempo lungo, quasi sempre in mano a racket criminali che forniscono, a fronte del pagamento di somme di denaro, tutte le informazioni utili per accedervi. Chiamando di nuovo in causa i dati di Federcasa, sono circa 30mila le case popolari occupate in Italia (altre 20mila sono di proprietà di enti o privati). Un terzo delle persone all’interno avevano ottenuto l’assegnazione di un alloggio e rifiutano di lasciare quello occupato abusivamente. Spesso poi, nel migliore dei casi, gli alloggi restituiti sono in pessime condizioni che richiedono all’ente gestore forti costi per consentirne il riutilizzo. Il Comune in cima a questa classifica è Palermo, con 3mila occupazioni, seguito da Reggio Calabria, Torino e Genova. Come se non bastasse, assistiamo spesso a casi di immobili confiscati alla mafia che vengono destinati a progetti sociali che però non possono essere utilizzati poi dagli enti del Terzo settore perché vengono occupati.
Stato di necessità, un circolo vizioso
Che cosa succede in questi casi? Purtroppo la situazione diventa complicata. Se è vero che occupare una casa popolare in modo abusivo si configura come reato sancito all’art.633 del Codice penale punito con una sanzione da 103 fino a 1.032 euro e la pena detentiva fino a due anni, lo sgombero dell’immobile in questione non ha carattere di immediatezza, perché è necessario un provvedimento di un giudice che spesso può anteporre lo stato di necessità, soprattutto qualora siano presenti dei minori. Può anche accadere che i giudici stessi decidano per la non applicazione delle pene previste sulla base della sussistenza di uno stato di necessità, come attualmente previsto dall’articolo 54 del Codice penale stesso. A mio parere siamo di fronte a un circolo vizioso. È corretto valutare lo stato di necessità del singolo caso e affermare che esista un diritto all’abitare, ma siamo tutti consapevoli che non tutte le situazioni rientrano in questa fattispecie e le conseguenze per chi ha infranto la legge spesso non sono diverse.
Un piano edilizio pubblico perché la casa sia un diritto e non un privilegio
Come d’abitudine in Italia, ci troviamo a ipotizzare soluzioni – o almeno provarci – davanti a fenomeni ormai strutturali e intrinseci alla società (basti pensare al ruolo dei gruppi criminali nelle occupazioni abusive) quando sarebbe invece necessario un nuovo piano edilizio pubblico con caratteristiche sostenibili in termini ambientale ed economici. I singoli casi dovrebbero essere presi in carico prima di vivere un disagio economico talmente forte da dover attivare ulteriori servizi; bisognerebbe investire negli alloggi popolari mettendo le persone nelle condizioni di essere puntuali con i pagamenti. Infine servirebbe una giurisprudenza italiana (o sarebbe meglio dire uno stato) capace di analizzare lo stato di necessità di individui e famiglie e di anteporlo all’eventuale sanzione, ma allo stesso tempo in grado di intervenire per risolvere le situazioni che diventano eccessive, tutelando i proprietari e impedendo ad alcuni di approfittare delle lacune pubbliche togliendo diritti a chi invece li dovrebbe vedere applicati. Perché è questa, a mio modo di vedere, la differenza. Lo stato deve garantire l’esercizio di quel diritto e non permettere che diventi un privilegio.