A parte Ghali, al momento nessuno manda messaggi a favore del voto sul referendum di cittadinanza
di Daniele De Luca
Improvvisamente, ecco che mercoledì 4 giugno sui profili social di Ghali compare un messaggio:
L’8 e il 9 giugno le italiane e gli italiani sono chiamati a votare. Questo referendum non è una cosa da ignorare. Si parla di diritti, di lavoro, di cittadinanza e di cosa vuol dire davvero far parte di un Paese. Io sono nato qui e ho sempre vissuto in Italia, ma ho ottenuto la cittadinanza solo a 18 anni. Anche mia madre è diventata cittadina italiana solo quando lo sono diventato io e questo ha complicato molte cose per entrambi. C’è chi nasce qui, vive qui da anni, lavora, paga le tasse, cresce figli, parla italiano, si sente italiano a tutti gli effetti ma non è riconosciuto come cittadino e con un SI chiediamo che bastino 5 anni di vita qui, non 10, per essere parte di questo paese. La cittadinanza non può essere solo un documento, è una questione di rispetto del tempo che abbiamo da viverci, e di dignità. L’8 e il 9 giugno si vota e se non lo fa almeno il 50% degli elettori, tutto questo non vale niente. Il referendum cade. Non basta essere d’accordo: serve esserci. Mentre aspettiamo che cessino le ingiustizie in altre parti del mondo, proviamo qui a costruire il cambiamento, insieme.
Ma gli artisti di seconda generazione, figli di immigrati nati o cresciuti in Italia, tacciono in grandissima parte sul referendum di cittadinanza.
Dove è Maruego, marocchino di nascita, milanese d’adozione, che ha contribuito a definire il suono della scena rap milanese? Laioung, italiano di madre sierraleonese e padre pugliese, che ha raccontato la sua esperienza di meticcio in brani come Rinascimento? Amir Issaa, figlio di egiziani, ha scritto la canzone Non sono un immigrato, esprimendo la sua appartenenza all’Italia. Tommy Kuti, italiano di origine nigeriana, ha sottolineato l’importanza di rappresentare le seconde generazioni. Poi è passato a OnlyFans e al porno… E ancora Baby Gang, Simba la Rue, Artie 5ive e Mosè COV, che stanno portando nuove sonorità e linguaggi alla scena musicale italiana? Dove sono Jesse the Maestro che si definisce “afrosiciliano”, Jeezus “afronapoletano” e Chiky Realeza “sudamerisardo”?
La scena dei rapper e trapper di seconda generazione continua a evolversi, con nuovi artisti che portano freschezza e innovazione. La loro musica rimane un potente strumento di espressione, resistenza e affermazione identitaria, contribuendo a ridefinire l’idea di “italianità” in un contesto globale e multiculturale.
«A frenare gli artisti in qualche modo non sono le pressioni delle case discografiche, ma l’ambiente ormai avvelenato dei social, dalle masse di haters»

Ne abbiamo parlato con Matteo Villaci, conduttore musicale, speaker e autore di RadioPopolare di Milano, tra i massimi esperti nazionali della scena rap e trap, ottimo amico, per fare un solo esempio, di Marrakesh.
«L’uscita social di Ghali è stata quanto mai opportuna. Ghali si era già esposto con ZeroCalcare per la raccolta di firme e, secondo me, è stato decisivo per il raggiungimento dell’obiettivo. Ci sono alcune figure che si espongono di più come il romano Gemitaiz che ha fatto un video su tik tok sull’importanza di andare a votare. Ma molti altri in effetti no, tacciono».
Perché secondo te?
«Il tema della esposizione sociale dei rapper e forse anche in generale dei musicisti in Italia è un tasto dolente al contrario di altri paesi europei dove invece l’impegno, l’ambito sociale sono il territorio di riferimento, sono un elemento identitario dell’artista. Da noi decisamente meno. Per fortuna Ghali si è fatto vedere, Marrakesh per esempio sulle questioni elettorali è sempre stato molto più critico, intendo proprio sull’elemento del voto in sé come atto di rappresentanza civile, ma non è detta l’ultima parola magari a poche ore dal referendum ci farà una sorpresa. Ma mi aspetto prese di posizione anche da parte di altri. Penso a Willy Peyote, a Dargen D’Amico. Secondo me a frenarli in qualche modo non sono tanto le pressioni delle case discografiche, che anzi penso lascino molta più libertà ai rappers di quanto non si creda, ma l’ambiente ormai avvelenato dei social, delle masse di haters che si scatenano appena qualcuno osa dire qualcosa di politico. C’è un’ansia da esposizione social che crea una sorta di autocensura negli artisti. Questo dovrebbe farci riflettere sulla realtà dei social network oggi, ma anche sulla qualità della “coscienza civile” del mondo della musica italiana».
