L’inchino ai regimi: quando lo sport è al soldo del potere

Ago 14, 2025 | Attualità

Nel 1976 Adriano Panatta e Paolo Bertolucci entrarono sul campo di tennis di Santiago indossando una maglia rossa. Era la finale di Coppa Davis, si giocava in Cile, sotto la dittatura di Pinochet. Un gesto silenzioso e calibrato, carico di significato politico, pensato da atleti affermati che sceglievano di usare il proprio spazio per prendere posizione contro un regime.
Quarantanove anni dopo, agli Europei Under 20 di Tampere, il giovane israeliano Ido Peretz si è presentato alla linea di partenza mimando il gesto della decapitazione verso la telecamera. Nessuna carriera consolidata, nessuna storia di impegno civile alle spalle: solo un atto breve e violento, esibito in mondovisione come dichiarazione di appartenenza. Due modi di stare in scena, due idee opposte di cosa possa significare essere un atleta davanti a un pubblico globale.

Non protesta, ma potere

Il gesto di Peretz non rientra nella lunga storia delle prese di posizione politiche nello sport. Non è il pugno guantato di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico nel 1968, con il capo chino e il silenzio sul podio. Non è l’inginocchiamento dei calciatori contro il razzismo, né le maglie con messaggi di pace. Non è una sfida alle istituzioni sportive o politiche: è la loro negazione in forma di minaccia, portata nel cuore della ritualità sportiva.

Quando lo sport si piega ai regimi

Esiste una lunga storia fatta di gesti di allineamento al potere. Dal saluto fascista dei calciatori italiani negli anni Trenta a quello nazista degli atleti tedeschi; dai pugni alzati in segno di fedeltà a dittature militari fino ai saluti militari della nazionale turca in favore di Erdogan, o al “gesto del lupo” del difensore Merih Demiral dopo un gol a Euro 2024. In questi casi, la scena sportiva diventa vetrina per messaggi di adesione a regimi o cause belliche, non spazio di contestazione.

Un linguaggio globale

Il gesto della decapitazione, come il saluto militare o il braccio teso, funziona su un registro simbolico immediato: non richiede spiegazioni, non si appella alla ragione. Trasforma la presentazione di un atleta in un atto di propaganda, rendendo indistinguibile il confine tra gara e guerra.

La responsabilità degli adulti

Episodi come quello di Tampere ricordano che il problema non è confinato agli stadi o alle piste. È il sintomo di un tessuto sociale che, in molti luoghi, ha smesso di coltivare i principi della convivenza. Non parliamo solo di ragazzini attratti da simboli violenti: parliamo di adulti, di atleti, di figure pubbliche che scelgono consapevolmente di usare il loro spazio mediatico per normalizzare il linguaggio dell’odio.

Oltre il riflesso condizionato

La reazione non può essere affidata al riflesso qualunquista o alla scorciatoia razzista. Serve la capacità di riconoscere la differenza tra chi protesta contro l’oppressione e chi, invece, mette in scena la sua celebrazione. Perché non tutti i gesti politici nello sport sono uguali. Alcuni aprono varchi, altri alzano muri.

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