Il sistema SAI si confronta con i cambiamenti e deve sapersi reinventare: dalla salute alla mediazione culturale, occorre un lavoro di rete per accompagnare ogni persona verso autonomia e inclusione. Leggendo i bisogni e costruendo interventi mirati
Fatima (nome di fantasia) ha 40 anni ed è in Italia dal 2023. Ha dovuto lasciare il suo Paese, il Pakistan, ha trascorso in Austria un periodo, ha ottenuto poi il riconoscimento dello status di rifugiata ed è accolta in uno dei progetti SAI che gestiamo in provincia di Milano. Fatima oggi sta bene, fa volontariato, si sta inserendo nella comunità territoriale e prosegue il suo percorso di integrazione e di autonomia, personale ed economica. Ma non è stato sempre così.
Al suo arrivo, già provata dal viaggio forzato e dalla barriera linguistica e culturale, le è stata diagnosticata una patologia ossea che aveva compromesso ormai quasi del tutto la mobilità della parte sinistra del corpo. Una condizione di fragilità fisica ma anche psicologica, amplificata dalle difficoltà di chi è costretto, non per scelta, a lasciare il proprio paese, la famiglia, le proprie radici. La nostra équipe – educatori, mediatori, coordinatori – si è messa subito al lavoro per accompagnarla. Non per sostituirsi a lei, ma per creare insieme le condizioni necessarie a riprendere il controllo della propria vita. Non solo assistenza, ma una prospettiva di vita.
Sono stati mesi complessi tra visite, burocrazia, una mole di documentazione da reperire e tradurre. Ma anche grazie alla collaborazione degli enti sanitari abbiamo provato a fronteggiare insieme l’ostacolo. Fatima ha iniziato un percorso di riabilitazione fisioterapica che in breve tempo ha portato netti miglioramenti. Ha recuperato in parte l’uso della mano, l’abbiamo supportata nella richiesta di inserimento nelle categorie protette per cercare un’opportunità di lavoro che le consenta di esprimere le proprie potenzialità. Ha attraversato momenti di scoraggiamento, ma con determinazione e piccoli passi ha recuperato fiducia. Ora il suo sorriso, la voglia di guardare avanti con un po’ di fiducia, ripaga quel lavoro di squadra che è stato sicuramente lungo e logorante, per lei e possiamo dire anche un po’ per noi.
La storia di Fatima non è isolata. “Fare accoglienza” ci pone ogni giorno davanti a persone con vissuti complessi, spesso segnati da traumi che non sono sempre visibili. Registriamo un cambiamento nel modo di migrare: le persone portano con sé sfide psicologiche e sanitarie sempre più articolate.
La sfida quindi non è più soltanto l’insegnamento della lingua italiana, la formazione o la ricerca di lavoro. Diventa fondamentale comprendere fin da subito quale debba essere l’area prioritaria di intervento. Qui entra in gioco il mediatore linguistico-culturale, che offre una lettura culturale della situazione e orienta l’équipe sulle azioni più opportune. È un ruolo importante, delicato, sottile, soprattutto perché chi ha una storia sfiancante mette nelle nostre mani racconti fragili, profondi, che tante volte fanno male anche a noi. E qui subentrano tutti i ruoli di chi “fa accoglienza”; ci si fa carico di quel bisogno e lo si declina in soluzioni pratiche; una visita medica, un nuovo permesso di soggiorno, un colloquio psicologico, un colloquio di lavoro.
Non ci troviamo più davanti ai “classici” sei mesi del percorso SAI nei quali cercare lavoro e casa ma a dover analizzare la situazione. Siamo chiamati ad essere ancora più perspicaci. Spesso chi arriva non è ancora pronto per il mondo del lavoro, perché ci sono diverse vulnerabilità da risolvere prima. Ci sono donne che sono state violentate, torturate, a cui qualcuno ha dato fuoco. Ma quelle cicatrici non sempre si vedono. Ed è proprio lì che un buon operatore svolge il suo compito, professionale e a tratti anche etico, nel capire che curare quella cicatrice (per quanto in nostro potere) significa “fare accoglienza” vincente, capace di accompagnare quella persona all’autonomia personale, lavorativa, sanitaria e abitativa.
Il ruolo dell’operatore sociale diventa quindi più complesso in questo momento storico – a nostro modo di vedere – perché richiede formazione e competenza, professionalità e capacità di fronteggiare la crisi (quando c’è) e attivarci per un’eventuale successiva risoluzione. Ci chiede di chiederci (il gioco di parole è voluto) come e su quali aree agire, prima di scrivere il PEI, il progetto educativo individualizzato. Ci chiede di leggere e valutare quegli elementi che sempre più restano sottotraccia, ma che sono essenziali per costruire storie di successo.
E anche quest’ultima parola diventa quindi un punto di partenza per altri interrogativi: che cosa può ritenere “di successo” quella persona? E soprattutto, come l’operatore sociale può essere un riferimento e una guida? Per una donna migrante che è stata violentata e che ha lasciato la sua terra, il successo può significare “solo” andare in giro tranquilla. Per una donna che ha subito un matrimonio forzato il successo può essere poter andare a lavorare. Per un uomo migrante che ha lasciato la sua famiglia a 6.000 km di distanza può voler dire fare un corso di formazione e trovare un’opportunità di lavoro. Per ciascuno il successo è soggettivo. Allora vediamo l’accoglienza di oggi come una serie di incastri che partono da un’analisi complessa e accurata che precede delle azioni, pensate, definite e condivise.
“Fare accoglienza” oggi significa imparare dalla nostra esperienza tecnica e professionale, ma anche reinventare percorsi diversi in un mondo che cambia a livello migratorio, lavorativo e abitativo. Cambia il migrante e cambia il territorio. Dobbiamo quindi essere sempre più capaci di osservare e imparare, mantenendo sempre la prontezza di intervento.
È un compito sempre più difficile: essere un operatore sociale in un’accoglienza che cambia, sempre diversa. Per dare una seconda occasione. Per costruire futuri possibili.
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