Dalla scuola arriva la spinta per una svolta sulla Cittadinanza

Set 5, 2025 | Attualità

Un’indagine pubblicata da Save the Children, dal titolo “Chiamami col mio nome”, mette in evidenza quale sia la distanza educativa e formativa tra i ragazzi che risultano italiani e quelli che non hanno accesso a quello status, nonostante vivano e magari siano nati nel nostro Paese. Un pregiudizio da sradicare, anche perché il futuro dell’Italia è tracciato.

La cittadinanza italiana, la sua mancanza in realtà, rappresenta una zavorra da tanti punti di vista per chi qui vive senza quel “pezzo di carta”, addirittura per chi qui è nato ma non risulta essere italiano a tutti gli effetti. Una sorta di spread anche scolastico, come certifica uno studio pubblicato pochi giorni fa da “Save the Children”.

Una fotografia della popolazione scolastica, con l’obiettivo puntato sugli studenti con un background migratorio, che immortala una situazione decisamente influenzata dalle norme che regolano l’accesso allo status di cittadino, sia per i ragazzi arrivati in Italia che per quelli figli di immigrati ma nati sul nostro territorio. Il 12,2% degli alunni dell’ultimo anno scolastico, circa uno su otto, non è in possesso della cittadinanza italiana. Da questo dato parte un’indagine complessiva che mette in evidenza una serie di distanze, più o meno ampie, tra coloro che possono contare sul riconoscimento della propria “italianità” e chi invece deve vivere da straniero nel nostro Paese. I ripetenti, ad esempio, sono il 4,6% degli alunni italiani, mentre tra gli immigrati di prima generazione la percentuale sale al 17,8%; dato che porta con sé una dispersione scolastica decisamente più elevata. Ma è solo uno dei numeri messi in fila da “Chiamami col mio nome. Un’indagine sugli studenti con background migratorio nelle scuole italiane”, il rapporto del quale ci stiamo occupando.

C’è la difficoltà nell’accedere all’istruzione universitaria, che di fatto nasce da un pregiudizio che si fa vivo ben prima, quando agli studenti delle secondarie di primo grado, le scuole medie per intenderci, viene suggerito, attraverso i percorsi di orientamento, il prosieguo più opportuno della loro carriera scolastica. Le condizioni socio-economiche degli immigrati (il 41,4% delle famiglie con minori ed entrambi i genitori senza cittadinanza italiana vive in condizione di povertà assoluta, a fronte di un 8,2% di nuclei “italiani”) portano gli stessi ragazzi coinvolti a privilegiare gli istituti tecnici ai licei, per l’immediato sbocco professionale. E anche chi deve indirizzarli e consigliarli lo fa tenendo conto di questa situazione. Questo però preclude loro la possibilità di raggiungere posizioni professionali di un certo livello: solo il 17,5% dei lavoratori di origine straniera si colloca tra dirigenti, professioni intellettuali, tecniche e scientifiche, mentre per gli italiani la percentuale sale al 40% e oltre.

Tutti dati, insieme a molti altri messi in evidenza da “Save the Children”, che confermano la necessità di modificare la normativa sulla cittadinanza, facilitandola e abbreviando i tempi per ottenerla. Il referendum di giugno andava nella direzione giusta, ma quell’istituto è ormai un incaglio più che una risorsa, in questi tempi di urne disertate, di… cittadinanza disimpegnata. È chiaro che la mancanza di quel “pezzo di carta” conti, lo dicono anche gli interessati intervistati da “Save the Children” a corredo del rapporto: c’è un senso di smarrimento, un crepaccio tra il loro vivere qui e il loro sentirsi parte di questa comunità, di questo Paese. E manca anche la consapevolezza di chi è “italiano” di quanto ormai sia opportuno, necessario anzi, abbattere gli steccati, rendersi conto di quanto ci sia bisogno di aprirsi ai nuovi cittadini. La fuga dei bimbi “autoctoni” dalle classi nelle quali è ampia la presenza di immigrati di prima o seconda generazione, il fenomeno chiamato “white flight”, è una dimostrazione di quanto sia retrograda la mentalità di troppi concittadini. Bisogna cambiare la legge, ma bisogna anche cambiare mentalità, perché barricarsi è controproducente, anche da un punto di vista economico. Se non fanno breccia i concetti più alti, possiamo provare con quelli terra terra: “il riconoscimento della cittadinanza per le seconde generazioni può generare nell’arco di un decennio benefici economici per il bilancio dello Stato, e quindi per l’intera comunità nazionale, tra gli 800mila e i 3,4 milioni di euro ogni 100 nuovi cittadini”, si legge nel rapporto.

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