Sul bancone del Bar Sport non mancava mai la Luisona: una pasta secca, ricoperta di glassa, che nessuno aveva il coraggio di mangiare. Restava lì, anno dopo anno, trasformata dalla fantasia di un paese in leggenda domestica. Non era soltanto un dolce dimenticato, ma un piccolo monumento all’inutilità che resiste, al tempo che passa e non cancella. C’era malinconia in quella presenza ostinata, e al tempo stesso la prova che anche ciò che non serve più può continuare a raccontare qualcosa.
Nei suoi libri Stefano Benni, morto il 9 settembre all’età di 78 anni, ha popolato l’Italia di creature improbabili e necessarie.
I bambini della Compagnia dei Celestini, che sfidano il mondo intero con un torneo di calcio sgangherato, non sono soltanto eroi da fiaba moderna: sono la voce di chi cresce in periferia, di chi trova nello sport e nella fantasia un risarcimento alla mancanza di opportunità. In Margherita Dolcevita, la ragazzina che osserva la trasformazione della sua famiglia in una parodia consumistica dell’“Italia che funziona” rappresenta lo sguardo ingenuo e lucidissimo di chi rifiuta l’omologazione. In Saltatempo, l’adolescente che attraversa le stagioni della vita inseguendo un futuro impossibile porta con sé la malinconia di un paese che non sa più sognare.
Questi personaggi vivono tra le pieghe di un’Italia marginale, lontana dai riflettori, spesso ridotta al silenzio. Benni li ha restituiti con una scrittura in contrappunto, sospesa tra satira e pietà, tra comicità e dolore.
La sua letteratura, in fondo, è un grande esercizio di ascolto: un dare spazio a chi non l’ha, un modo per dire che il mondo non è fatto soltanto di vincenti. Invita a non fermarsi davanti all’etichetta, a non piegare le persone alla logica dei numeri o delle prestazioni. Si tratta, ed è questo l’aspetto che vogliamo trattenere, di riconoscere che in ogni persona c’è sempre una quota di irriducibile, di non previsto, di sorprendente, che chiede di essere ascoltato e accolto. Forse è proprio qui che si trova la lezione più attuale per chi lavora nel sociale.
Attraverso le parole dei suoi personaggi, il lettore ride e si commuove, spinto a riflettere da un andamento comico spesso – se non sempre – come incrinato da un’ombra, mai tanto cupa da togliere leggerezza alla scrittura. La sua letteratura, in fondo, è un grande esercizio di ascolto: un dare spazio a chi non l’ha, un modo per dire che il mondo non è fatto soltanto di vincenti.
Forse è proprio qui che si trova la lezione più attuale per chi lavora nel sociale. I personaggi di Benni non sono mai “casi” o un catalogo di problemi da risolvere: hanno difetti, desideri, malinconie, guizzi improvvisi. Sono portatori di una sorta di eccedenza che sfugge alle classificazioni e che la scrittura si impegna a custodire e, al contempo, a restituire.
La sua opera invita a non fermarsi davanti all’etichetta, a non piegare le persone alla logica dei numeri o delle prestazioni. Si tratta, ed è questo l’aspetto che vogliamo trattenere, di riconoscere che in ogni persona c’è sempre una quota di irriducibile, di non previsto, di sorprendente, che chiede di essere ascoltato e accolto. Benni con le sue storie ha sempre dato spazio a chi sembrava non averne, trasformando il margine in centro narrativo, mostrando che la dignità non dipende dall’efficienza.
Se si guarda al suo lavoro da questa prospettiva, ecco allora che la Luisona, il dolce dimenticato e immortale, diventa un simbolo quasi inconsapevole del suo insegnamento: non tutto ciò che resiste ha una funzione, ma tutto ciò che resiste può avere un senso. Così le persone che la società tende a relegare ai bordi portano con sé un sapere nascosto, una memoria, una possibilità di futuro. Raccontarle, come ha fatto Benni, è già una forma di cura.
Forse ci ha lasciato proprio questo: l’arte di ricordare che dietro ogni Luisona c’è una storia che resiste al tempo, e che vale la pena ascoltare.

