Il leader delle ragazze del volley, capaci di vincere Olimpiade e Mondiale nell’arco di un anno, da sempre si concentra anche sul mondo giovanile e su un dettaglio tutt’altro che secondario: la gestione del fallimento. Nello sport come nella vita serve una consapevolezza che questa società, fatta di giudizi e performance, mette costantemente in discussione
Jacopo Casoni, giornalista professionista, nell’arco della sua carriera si è occupato di tanti temi, dallo sport alla politica, passando per la cronaca e il racconto della città di Milano. Dal 2008 fa parte della redazione di Telenova e dal 2016 ha collaborato anche con testate locali, prima Segrate Oggi e poi il Giornale di Segrate.
“Bisogna saper perdere”, cantavano i The Rocks. Era il 1968, Julio Velasco aveva 16 anni. Viveva a La Plata, l’Italia era distante ancora tre lustri, il volley una mezza idea e poco più. Ma quel verso di una canzone a lui sconosciuta è diventato uno dei suoi mantra, una delle lezioni alle quali più tiene, lui che ha vinto tutto e non soltanto una volta.
Eppure, l’uomo che ha creato la “generazione di fenomeni” della pallavolo italiana e che oggi allena quella che per tutti è la Nazionale femminile più forte di sempre, reduce da 36 successi consecutivi, con un’Olimpiade e un Mondiale messi in bacheca in appena un anno, continua a portare avanti quella che è una paradossale cultura della sconfitta. E questo concetto alto ha ovviamente un valore sportivo, ma ha una fondamentale importanza educativa.
Velasco giusto qualche giorno fa ha svelato quale sia stato il segreto del recentissimo oro iridato: “allenarsi come se l’Olimpiade di Parigi l’avessimo persa”, ha detto. Perché nello sport si deve avere la consapevolezza chiara che la regola è l’alternanza tra vittorie e sconfitte, che vince solo uno e che non sempre puoi essere tu. Per aumentare le chances di riuscire è indispensabile che l’obiettivo sia progredire e la più grande spinta in questo senso la dà proprio il fallimento, unito all’orgoglio e alla voglia di rivalsa. Ma saper perdere è anche altro, è la rinuncia agli alibi, dice spesso Velasco. “Quando abbiamo perso la finale dei Giochi di Barcellona nel 1992 – ricorda sovente il coach dei coach – non abbiamo detto niente. Non abbiamo dato la colpa all’arbitro, alla sfortuna, a un giocatore, a me che allenavo quella squadra. Che cos’è un alibi? È dire che non posso fare una cosa non perché non ci riesco, ma perché c’è qualcosa che lo impedisce e che io non posso modificare”. Concetto semplice, ma per nulla banale. E questo atteggiamento mentale è produttivo non solo nello sport, ma nella vita.

La metafora tra sport e vita, però, è una prassi che lo stesso Velasco ha sempre combattuto. L’idea che la nostra società promuova questo ragionare come se tutto fosse una competizione, come se nel mondo valessero le regole di un torneo, come se contasse solo vincere. Passare questo messaggio ai giovani è fortemente diseducativo, riduce tutto al risultato, li spinge a sentirsi inadeguati qualora le loro performance non siano ottimali. E così il vincente per eccellenza, già prima di vivere la sua seconda età aurea, dava un consiglio semplice ai ragazzi. “Fate ciò che vi piace. E se piace essere penultimi, ma facendo una cosa che vi fa stare tranquilli, nessuno vi deve giudicare. La vita non è una scala dove più arrivi in alto e più sei bravo“.
Affrancarsi dal giudizio altrui, specie in un mondo nel quale i social hanno moltiplicato le valutazioni alle quali si è sottoposti, dando voce anche a perfetti sconosciuti rispetto a tutto ciò che ci riguarda. Velasco sui giovani investe e ha sempre investito, radicalmente dalla loro parte, cosciente che a cambiare sia stato il mondo e non le generazioni di ragazze e ragazzi, che hanno di fatto le stesse inquietudini e gli stessi bisogni di quelle precedenti. E ai giovani ha riservato quella sua lezione più grande, quel verso di una canzone sconosciuta diventato un comandamento, al netto di chi lo guarda storto, non capisce. “Non credete a quelli che vi dicono che il mondo si divide tra vincenti e perdenti. Il mondo, secondo me, si divide tra brave e cattive persone; questa è la divisione più importante. Poi, tra le cattive persone ci sono anche dei vincenti, purtroppo. E tra le brave persone, purtroppo, ci sono anche dei perdenti”.
Gestire il fallimento, usarlo per migliorare, concentrarsi su ciò che ci fa star bene e non cercare a tutti i costi il consenso degli altri, vivere la ricerca della propria strada, la riflessione precedente alla quale dedicare tempo senza lasciarsi fagocitare dalla fretta che il mondo mette a tutti perché si conseguano risultati, come una parte fondamentale del viaggio. Il Velasco-pensiero non è tutto qui, ma qui c’è un bel pezzo di quel segreto che tale non è, visto che “Giulio” da La Plata lo porta in giro con sé e lo condivide senza alcuna gelosia.

