Scuola senza figli: appunti amari sulla crisi demografica

Set 16, 2025 | Cooperazione

In dieci anni perso quasi un milione di studenti, con il sistema educativo inchiodato alle sue contraddizioni. La politica celebra l’aumento di personale e la retorica delle “classi meno numerose”, ma non vuole davvero ripensare il rapporto tra scuola, lavoro e società. Si preferisce così risparmiare sulle ore degli educatori, frammentare i contratti, tagliare i presidi nei territori più deboli

Italia, anni Settanta: il problema è garantire un banco a tutti. Le scuole scoppiano, si fanno i doppi turni, una classe esce a mezzogiorno, un’altra entra al pomeriggio. L’istruzione è un diritto che fatica a trovare spazi, mura, insegnanti.

Italia, 2025: le scuole si svuotano. In dieci anni la popolazione scolastica ha perso un milione di alunni. Le aule non bastavano, ora abbondano. Dove prima c’era ressa, oggi c’è silenzio. Non servono doppi turni, servono turni di chiusura.

Questa parabola dice tutto: il Paese che un tempo temeva l’affollamento oggi deve fare i conti con l’assenza. Non più il problema di contenere le moltitudini, ma di riempire i vuoti. La crisi demografica non è un dato statistico: è la cronaca di un collasso che tocca la scuola, il lavoro educativo, la tenuta sociale.

Scenario demografico

L’Italia si spegne a lume di candela. Non la fiamma intima delle veglie contadine, ma il tremolio stanco di un neon che lampeggia prima di bruciarsi. La curva demografica disegnata dall’Istat è un bollettino funebre più che una statistica: nel 2008 i nati erano 576mila; nel 2021 appena 405mila; nel 2024 sono scesi a circa 370mila, con un tasso di natalità di 6,3 per mille e una fecondità di 1,18 figli per donna — il minimo storico mai registrato (Istat, Indicatori demografici 2024).

Ogni culla vuota di ieri è un banco vuoto di domani. La crisi non è un destino naturale ma il frutto di politiche miopi e salari da fame, di precarietà spacciata per flessibilità, di un welfare che confonde i bonus con la giustizia sociale. Crescere un figlio in Italia costa come mantenere un’utilitaria trasformata in fuoriserie: bollo, assicurazione, benzina sempre in salita. Così si rinvia, si rinuncia, si fa finta di nulla.

La retorica ufficiale parla di “longevità come risorsa”, ma la verità è più brutale: fabbrichiamo più nonni che nipoti. I paesi si svuotano, i quartieri si popolano di badanti, gli anziani sopravvivono uno accanto all’altro. Si costruiscono RSA come se fossero i nuovi asili nido, con la stessa retorica di servizio alla comunità. È il paradosso di un Paese che celebra la vita lunga senza garantire l’inizio della vita stessa.

Dentro questo scenario la scuola è il primo laboratorio della catastrofe. Non servono grandi analisi: il saldo naturale negativo incide direttamente sugli iscritti. L’istruzione diventa un termometro impietoso: meno bambini nati, meno bambini a scuola, meno insegnanti richiesti domani, più edifici chiusi nei territori marginali. Il dramma è che la politica, invece di guardare in faccia l’incendio, continua a distribuire secchi d’acqua come se fosse un barbecue mal riuscito. Incentivi spot, convegni paludati, conferenze stampa in cui si celebra il “piano straordinario per la natalità”. Ma straordinaria è solo la continuità della disfatta. L’Italia non sta semplicemente invecchiando: l’Italia sta scegliendo di morire. E lo fa lentamente, con la compostezza di chi spegne l’ultima candela senza accorgersi che è rimasto al buio.

Evoluzione della popolazione studentesca

Le aule italiane si svuotano come i cinema di periferia dopo la proiezione dell’ultimo film di quart’ordine. Restano i neon accesi, qualche sedia rovesciata, l’odore di polvere. Così sono oggi molte scuole: edifici pensati per accogliere vita che lentamente si svuota, lasciando corridoi silenziosi e classi mezze vuote.

I dati sono la cronaca di questa desertificazione. In dieci anni la scuola ha perso quasi un milione di studenti: da 8,7 milioni nel 2014 a 7,9 milioni nel 2024, pari a un calo del 9% (Pagella Politica, su dati Miur). Per l’anno scolastico 2025/2026 si prevede una popolazione studentesca attorno a 7,8 milioni, di cui circa 7 milioni nelle scuole pubbliche. Non un refuso, ma una curva che non si ferma.

Il crollo non è uniforme. L’infanzia paga il prezzo più alto: -21% di iscritti. La primaria arretra del 13%, le scuole medie dell’8%. Solo le superiori hanno tenuto finora, ma non illudiamoci: l’onda anomala della denatalità è già in movimento e investirà anche loro nei prossimi anni. I bambini del 2021, quando nacquero appena 405mila persone (fonte: Istat), diventeranno studenti delle superiori nel 2035. E i nati del 2024 — 370 mila, minimo storico (Istat, Indicatori demografici 2024) — segneranno l’ennesimo scalino verso il basso. Nei piccoli comuni la curva è una lama: la chiusura di una scuola non è un dato tecnico, è un funerale civile. Ogni plesso che scompare trascina con sé un pezzo di comunità, costringendo famiglie e bambini a spostamenti sempre più lunghi, come profughi interni in cerca di un banco.

Eppure qualcuno continua a raccontare che “classi meno numerose” significheranno didattica più personalizzata. Una favola che serve a coprire la realtà: i numeri calano, ma l’organizzazione resta ferma, gli insegnanti non vengono formati a nuove metodologie, e i territori marginali si vedono sottrarre l’unico presidio rimasto. È la versione scolastica delle “cattedrali nel deserto”: edifici scolastici svuotati che resistono solo come simulacri. L’Italia non sta solo perdendo studenti: sta smettendo di generare futuro. E la scuola, invece di essere la diga che trattiene l’acqua, diventa il primo cratere in cui il fiume della denatalità si inabissa.

Dinamiche occupazionali nel sistema educativo

Meno studenti, più insegnanti: sembra un ossimoro, invece è la fotografia dell’Italia educativa nel 2025. In dieci anni, mentre gli iscritti delle scuole pubbliche sono calati dell’8%, il corpo docente è cresciuto del 23%: dai 722 mila del 2014 agli 890 mila del 2024, con gli insegnanti di sostegno raddoppiati da 110 mila a 205 mila (Pagella Politica, su dati Miur). Il rapporto è passato da 0,94 a 1,26 docenti ogni 10 studenti, un incremento del 34%.

Apparentemente una conquista: più docenti, meno alunni per classe, migliori condizioni di apprendimento. In realtà un paradosso, che mostra un sistema inchiodato alle proprie contraddizioni. Perché mentre le statistiche celebrano l’aumento di personale, il sistema lamenta la cronica difficoltà di reperire insegnanti qualificati e, ancor di più, educatori preparati per l’integrazione e l’inclusione delle persone con disabilità.

Il risultato è schizofrenico: classi che sulla carta hanno un docente in più, ma sul territorio faticano a coprire le cattedre; graduatorie sfiancate da supplenze lampo; precariato strutturale mascherato da fisiologica rotazione. Gli insegnanti di sostegno crescono in numero ma non sempre in competenza, spesso reclutati in emergenza per tappare buchi che diventano voragini. Intanto la politica rivendica “più posti di lavoro nella scuola”, come se l’istruzione fosse un ammortizzatore sociale da gonfiare a colpi di assunzioni senza progetto. La domanda vera resta inevasa: quale scuola, con quali competenze, con quale visione educativa? Aumentare le teste non basta se i corpi professionali restano smembrati e disallineati ai bisogni reali.

Dietro l’apparente abbondanza di docenti si nasconde la carestia di educatori. Le famiglie faticano a trovare servizi integrativi, i Comuni arrancano per coprire i doposcuola, le cooperative sociali reggono un sistema che produce insegnanti in esubero ma non forma professionisti dell’educazione. È il solito gioco all’italiana: statistiche in crescita, realtà in caduta libera. La scuola, insomma, ha più insegnanti ma meno insegnamento.

E così, dietro l’apparente abbondanza di docenti, si nasconde la carestia di educatori. Le famiglie faticano a trovare servizi integrativi, i Comuni arrancano per coprire i doposcuola, le cooperative sociali reggono sulle spalle un sistema che produce insegnanti in esubero ma non forma professionisti dell’educazione. È il solito gioco all’italiana: statistiche in crescita, realtà in caduta libera. La scuola, insomma, ha più insegnanti ma meno insegnamento.

Le difficoltà di reperimento del personale educativo

Sulla carta l’assistenza educativa specialistica è un presidio di civiltà. Nei fatti, si traduce in un lavoro frantumato, ridotto a pacchetti di ore che vengono negoziati più come un bilancio condominiale che come un diritto. Ogni alunno riceve una quota temporale, non una presenza stabile; ogni educatore si muove dentro schede orarie ritagliate, non dentro un progetto professionale. È così che una funzione delicata e complessa, che dovrebbe garantire continuità relazionale e qualità pedagogica, viene compressa fino a diventare un servizio di assistenza camuffato. Gli stipendi bassi non sono il frutto di qualche astratta legge economica. Sono il prodotto diretto di questa frammentazione. Se il lavoro è ridotto a minuti e non a intenzione educativa, anche la retribuzione si riduce a briciole. Non è solo denaro in meno: è identità professionale erosa, impossibilità di riconoscersi in un mestiere, negazione di una progettualità.

Qui il nodo non è soltanto delle cooperative, ma del Terzo Settore nel suo complesso. Non più interprete dei bisogni sociali, spesso si rifugia in una narrazione autoassolutoria, funzionando come una macchina pseudo-lobbistica, più attenta a difendere posizionamenti che a innovare pensiero e pratiche. Si evita la concorrenza non per tutelare i lavoratori, ma per garantire continuità di affidamenti che finisce per concentrare commesse e potere su pochi soggetti, lasciando alle altre organizzazioni un ruolo ancillare e, soprattutto, di dipendenza dai soggetti con più potere; organizzazioni che vivono di una sorta di indotto, secondo le regole del capitalismo, che piaccia o meno. Un gioco che, neanche troppo alla lunga, scarica i costi su chi lavora.

Se davvero la priorità fosse il diritto al lavoro, il Terzo Settore avrebbe già sollevato una critica radicale verso le organizzazioni che sostituiscono personale retribuito con volontari. Quella è la negazione più brutale della professionalità. Eppure, il silenzio prevale: meglio difendere lo status quo che aprire conflitto. Così il diritto al lavoro diventa retorica, mentre la compressione dei diritti del personale educativo è la regola implicita che sostiene il sistema.

L’albo degli educatori

A rendere la scena ancora più grottesca c’è la vicenda degli albi professionali. La Legge 55/2024 ha istituito l’ordine degli educatori e dei pedagogisti, promettendo riconoscimento e dignità. Educatori hanno presentato domande, raccolto documenti, aspettato. Ma a oltre un anno dall’approvazione, gli albi restano inattivi, le domande inevase, il sistema fermo. Un albo che non esiste: il monumento all’ipocrisia istituzionale. Il risultato è un servizio che vive di finzioni: si presenta come risposta evoluta alla complessità della disabilità, ma in realtà offre spezzoni di tempo, stipendi da sopravvivenza, riconoscimenti professionali inesistenti. Una grande messinscena del welfare italiano, in cui la parola “specialistico” serve a dare lustro a quello che, nella pratica, è una professione svilita, negata, resa invisibile.

Politiche di risposta

Ogni volta che la parola “denatalità” sale nei titoli, si ripete lo stesso rito: bonus rilanciati come se fossero saldi di fine stagione, assegni una tantum, campagne con slogan gonfi e platee grigie. È la liturgia delle pezze: interventi temporanei, che non intaccano il problema strutturale. La politica finge che basti distribuire qualche incentivo economico per far tornare la voglia di avere figli. Ma la scelta di mettere al mondo un bambino non dipende da un bonus in busta paga. Dipende da salari decenti, da affitti sostenibili, da servizi educativi diffusi, da prospettive stabili. Se queste condizioni mancano, nessuna mancia istituzionale cambierà le cose.

La cooperazione sociale non può rispondere alla crisi demografica: non è nelle sue mani invertire il calo delle nascite. Ma può e deve dire che questa crisi è un problema enorme, che segna il destino della scuola e del lavoro educativo. Tacere o minimizzare significa essere complici del collasso. Denunciarla, invece, significa assumere un ruolo politico

Sulla scuola, il discorso è altrettanto contraddittorio. Le risposte sono sempre due: chiudere o accorpare istituti per “ottimizzare”, e riversare tecnologia come se bastasse un tablet per colmare il vuoto di studenti. La retorica digitale serve a mascherare la desertificazione demografica: meno iscritti, meno comunità, meno senso. Anche sul sostegno agli alunni con disabilità l’investimento, almeno sulla carta, c’è stato: i posti sono aumentati in modo significativo. Ma la quantità non garantisce qualità. Molti incarichi sono coperti da persone senza una formazione adeguata, assunte in deroga o per necessità, non per motivazione professionale all’incarico. Il risultato è una rotazione continua, figure non centrate, scarsa continuità educativa. È il simbolo del modo italiano di affrontare le emergenze: proclamare numeri in crescita, senza preoccuparsi se dietro ci sia competenza.

Il nodo è che le politiche ufficiali non vogliono davvero ripensare il rapporto tra scuola, lavoro e società. Si preferisce risparmiare sulle ore degli educatori, frammentare i contratti, tagliare i presidi nei territori più deboli. E intanto si scrive, con toni solenni, della “centralità dell’istruzione” nei piani strategici. È la politica del dire una cosa e fare il suo contrario. Lo stesso avviene sul fronte del welfare: si annunciano misure di conciliazione vita-lavoro, ma restano vuote di vincoli e risorse. Nessun investimento strutturale, solo palliativi.

Tutti sanno cosa servirebbe: riconoscere il lavoro educativo come infrastruttura essenziale, finanziare in modo stabile i servizi, garantire dignità professionale. Ma nessuno osa dirlo perché significherebbe intaccare equilibri consolidati: toccare interessi, redistribuire risorse, incrinare il racconto che il Terzo Settore ha contribuito a costruire e, nella pratica, continua ad alimentare. Così le politiche di risposta restano retorica. La natalità con i bonus, la scuola con gli accorpamenti, l’educazione con spezzoni di ore. Il Paese si spegne, candela dopo candela, mentre i decisori celebrano l’ennesimo piano straordinario.

Il ruolo della cooperazione sociale

La cooperazione sociale non può confondersi con il grande calderone del Terzo Settore. Dentro quel contenitore si muovono soggetti che usano volontariato gratuito per sostituire lavoro retribuito, fondazioni che accumulano rendite, associazioni che difendono posizionamenti senza alcuna capacità di innovazione. In questo magma la cooperazione rischia di perdersi, se accetta di essere solo un erogatore tecnico.

La sua caratteristica peculiare non è solo la forma democratica, la mutualità, l’assenza di scopo di lucro. È soprattutto quella di essere un soggetto consapevole e politico, capace di leggere i bisogni sociali e di produrre visioni. Non basta rispondere ai bandi o consegnare pacchetti di ore: occorre assumere la funzione educativa come bene politico, difendere i diritti del lavoro, contestare le regole distorte che impoveriscono servizi e professioni. Oggi questa funzione è soffocata da logiche spartitorie, spesso camuffate dietro la retorica della coprogettazione e della coprogrammazione. Tavoli che dovrebbero essere luoghi di confronto diventano palcoscenici per accordi già scritti. La cooperazione sociale non può accettare di partecipare a questi riti, limitandosi a occupare un posto alla tavola della spartizione. Deve smascherare la finzione e rifiutare di legittimarla.

Al tempo stesso, non deve raccontare di poter risolvere tutto. La cooperazione sociale non può rispondere alla crisi demografica: non è nelle sue mani invertire il calo delle nascite. Ma può e deve dire che questa crisi è un problema enorme, che segna il destino della scuola e del lavoro educativo. Tacere o minimizzare significa essere complici del collasso. Denunciarla, invece, significa assumere un ruolo politico: non per fornire soluzioni immediate, ma per aprire spazi di consapevolezza, per spingere le istituzioni a riconoscere l’urgenza e per pretendere politiche all’altezza.

La cooperazione sociale può distinguersi solo così: non chiudendosi in risposte autoreferenziali, non rifugiandosi nella gestione tecnica, ma tornando ad essere interprete critico dei bisogni e promotrice di posizioni politiche evolutive. Diversamente, finirà assorbita nello stesso meccanismo che oggi denuncia, indistinguibile da qualsiasi altro erogatore di servizi.

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