«Disagio giovanile, la scuola unica agorà rimasta. Vanno ripensate le strutture sociali»

Set 26, 2025 | Attualità

Aumentano le richieste di aiuto registrate dal Telefono Azzurro e i comportamenti autolesivi, come denunciato in Lombardia dall’assessore al welfare Guido Bertolaso. I giovani sempre più di frequente soli davanti a uno schermo. Intervista a a Vincenzo Maria Romeo, psichiatra con esperienza nelle scuole e negli istituti penali minorili

di Jacopo Casoni

Il disagio giovanile fotografato da due dati arrivati a stretto giro, negli ultimi giorni. Uno è quello condiviso dalla Fondazione Sos Telefono Azzurro durante una commissione parlamentare: nel 2024 le richieste di aiuto ricevute attraverso la linea dedicata all’ascolto sono state 1.859 (155 al mese e circa cinque al giorno, per intenderci). Un aumento considerevole che conferma anche per lo scenario italiano un problema crescente a livello mondiale: un ragazzo su sette, tra i 10 e i 19 anni, soffre di un disturbo psichico. L’altro dato lo ha comunicato l’assessore lombardo al Welfare, Guido Bertolaso. In Lombardia, dal 2019 al 2025, i casi di minori con comportamenti autolesivi o suicidari presi in carico sono raddoppiati, passando da 407 a 815. «Da un punto di vista delle richieste di aiuto si registra da tempo un’escalation incredibile», conferma il Professor Vincenzo Maria Romeo, psichiatra con esperienza pluriennale anche nel contesto scolastico.

Cosa è cambiato rispetto al passato?

«Innanzitutto, oggi ragazzi di 20 anni arrivano dallo psichiatra da soli, una volta questo non accadeva, iniziavano un percorso terapeutico perché convinti o addirittura costretti. Ieri ho incontrato due ragazze, una di 14 e l’altra di 15 anni, entrambe con difficoltà enormi e con pensieri suicidi ari, una di loro ha infilato la testa in un sacchetto, per capirci. Tutte e due hanno convinto le loro madri a portarle da me».

Sono pazienti diversi, insomma, con problemi più complessi rispetti ai loro coetanei di qualche tempo fa.

«Esattamente. I ragazzi di oggi sono adultizzati e questo anche in virtù di un’assenza di una figura adulta nelle loro vite. E per questo il sistema di supporto, che si divide tra psichiatria e neuropsichiatria infantile, non regge più, risulta decisamente anacronistico, vive su suddivisioni tra maggiorenni e minorenni che sono state impostate 50 anni fa e mai modificate. La dipendenza da sostanze e i disturbi alimentari sono i due grandi temi di oggi, diversi da quelli di ieri: i ragazzi li usano come automedicazioni per stare bene e per stare dentro alle situazioni rispondendo alle loro fragilità. È tutta un’altra storia».

Come si deve intervenire?

«I livelli di azione sono due. Partendo dal secondo, va aggiornato il sistema, vanno incrementate le risorse, vanno ripensate le strutture sociali da promuovere, perché la svolta digitale ha di fatto chiuso i luoghi di socialità. I ragazzi si ritrovano davanti a uno schermo e credono che questa modalità di “incontro” azzeri le distanze, ma di fatto si ritrovano soli. Ma il primo fronte sul quale lavorare è quello dei genitori. Spesso i ragazzi li vedono solo a cena, c’è fondamentalmente una mancanza di quello che chiamiamo “attaccamento”, il rapporto con i genitori che è decisivo per la costruzione di relazioni funzionali con gli altri. E qui bisogna partire dal motivo per il quale si fanno figli. I figli vanno “pensati”, immaginati, desiderati quale processo d’amore, non costruiti a tavolino in tempi ed in modi più funzionali, non per completare un progetto di vita incentrato su una relazione d’amore, ma quasi sempre per completare la propria vita, con un concetto molto ego riferito. Oppure perché sono la proiezione di istanze del genitore: si fanno figli a una certa età, quando tutto è in ordine, quando le cose sono come le si desiderava. Peccato che un ragazzo ha i propri bisogni, i propri sogni, la propria vita e se tu ti poni in questo modo già prima di diventare genitore, difficilmente intercetterai tutto questo suo mondo. Quando mi capita di parlare ai genitori di queste cose, arrivo eccome; si sentono chiamati in causa, quindi è un lavoro possibile e utile».

E la scuola in questa dinamica che ruolo dovrebbe avere?

«Quando gli insegnanti mi chiedono come devono comportarsi, ricordo loro che l’assenza dei genitori consegna agli stessi docenti un ruolo più ampio, educativo in senso lato. La scuola è l’agorà spontanea, l’unico vero luogo di incontro. Ed è per questo che, tornando al sistema di supporto, credo che vada avvicinato al sociale e reso meno sanitario, usando proprio la scuola. In Calabria sta per partire l’era dello psicologo scolastico. Che senso ha andare a scuola e poi dover cercare all’esterno cose che anche la stessa scuola potrebbe offrire? Lì, nell’agorà attuale, vanno costruite le risposte ai bisogni dei ragazzi; lì vanno predisposti strumenti di attenzione per un’osservazione che sia costante. In un mondo nel quale gli studenti possono attingere alle conoscenze attraverso Internet e i supporti digitali, la scuola nozionistica è destinata ad estinguersi: io nel futuro prossimo la vedo come un macrocontenitore, con figure che ruotano intorno ai ragazzi e ne intercettano i bisogni e i disagi fornendo l’aiuto necessario, continuo, e costante come ‘presenza’ adulta».

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