di Dario Colombo
“Con un poco di zucchero la pillola va giù”, cantava Mary Poppins mentre scivolava elegante giù dalla nuvola. Oggi a Milano la ricetta è aggiornata: allo zucchero si sostituisce una spolverata di sociale, rigorosamente a velo. Una spolverata per rendere digeribili piani urbanistici selettivi, operazioni fondiarie indigeste, rigenerazioni che rigenerano più i bilanci che le relazioni.
Le recenti chat emerse dall’inchiesta, con la frase choc dell’ex presidente della commissione paesaggio all’ex assessore Tancredi (“Basta una spolverata di edilizia sociale”) non raccontano nulla che chi vive e lavora in città non sapesse già. Rendono però esplicito ciò che era implicito: il sociale come additivo cosmetico. Non accessorio neutro, ma parte di una strategia. Un dispositivo che rende accettabili – persino desiderabili – interventi che altrimenti verrebbero percepiti per quello che sono: trasformazioni selettive, che delimitano e gerarchizzano più di quanto aprano e includano.
L’amara conferma di ciò che si provava a dire
Non è scoperta improvvisa. Da anni, e in ultimo nei due articoli pubblicati su queste pagine, proviamo a dirlo. Parlando di “urbanistica cosmetica”, di “bello come condizione abitabile”, di narrazione che precede e sostituisce l’esperienza, intendiamo la costruzione di un modello che si racconta come inclusivo per consolidare rendite esclusive.
La chat sulla spolverata di sociale non fa che confermare il quadro: parole rassicuranti, partecipazioni guidate, conflitti assorbiti. Nel frattempo, le domande di diritto diventano bisogni da assistere, i quartieri popolari sfondi per murales celebrativi, le politiche abitative segmenti residuali di strategie immobiliari.
Cosmesi sociale, ovvero socialwashing e Terzo Settore: un’alchimia nota
L’operazione è tanto semplice quanto pervasiva: inserire elementi “sociali” in progetti già definiti altrove, non per mutarne la sostanza, ma per attenuarne l’impatto. È l’effetto zucchero: un lessico rassicurante che addolcisce processi di esclusione. Housing sociale, piazze tattiche, assessorati rigenerativi: parole che promettono inclusione ma servono, più spesso, a pacificare conflitti e a garantire legittimità politica e immobiliare, ribaltando “l’albero di trenta piani” cantato un tempo da Celentano in una suggestiva “Torre botanica”, pensata per la rinnovata immagine via via Melchiorre Gioia.
Il Terzo Settore – e qui la questione si fa scomoda – ha avuto un ruolo decisivo in questa narrazione. Non solo perché coinvolto nei progetti, ma perché progressivamente incorporato nella regia: cooptato con bandi, partenariati e quote di governance che, più che aprire opportunità, riproponevano – e ripropongono – anche nel sociale lo stesso metodo: sulla carta inclusivo, a colpi di co-programmazioni e co-progettazioni; nella pratica teso a rinforzare posizioni di forza (e di rendita), concentrando su un numero ridotto di soggetti gli interventi e lasciando al resto degli interlocutori parti residuali, da gestire solo a condizione di non alzare troppo la voce e di non risultare troppo scomodi.
I forum, le tavole rotonde, le presentazioni istituzionali diventano così momenti di conferma più che di confronto: la parola “partecipazione” sostituisce la partecipazione stessa, e la cooperazione si traduce in storytelling. Non è un giudizio morale, ma politico: il Terzo Settore milanese, anche nei sedicenti segmenti più radicali, si è accomodato all’interno di queste logiche, offrendo il volto umano a strategie che, sul piano strutturale, ridefinivano la città come asset selettivo.
Oltre l’housing sociale: un’altra via
La vera questione è qui: continuare a discutere solo di housing sociale significa restare dentro la gabbia semantica di chi governa il racconto. Non basta una quota calmierata dentro progetti di lusso per parlare di inclusione. Non basta un cohousing “accessibile” per dire di avere risolto il diritto alla casa. Non basta una “piazza condivisa” per sanare un conflitto urbano.
Serve un cambio di prospettiva: pensare a un insieme di soluzioni abitative che non si limitino a mitigare, ma che costruiscano un modello alternativo di attrattività. Un modello trainato non dal consumo ma dalla possibilità di vivere, lavorare, crescere in città senza doverne continuamente giustificare la presenza. Un’attrattività basata su prossimità, servizi pubblici reali, riconoscimento dei conflitti come parte del progetto urbano e non come problema da rimuovere.
Superare l’housing sociale significa immaginare una politica dell’abitare che coniughi – senza appiattirli – diversi livelli di intervento: edilizia pubblica, affitti accessibili, riuso di patrimonio sottoutilizzato, forme cooperative di gestione. Significa restituire al sociale la sua funzione originaria: non additivo cosmetico, ma motore critico e generativo.
Un appello che non sia rituale
Denunciare non basta. Serve dire chiaramente che il sistema attuale non funziona e che il Terzo Settore, e la cooperazione sociale in particolare – se vogliono avere un orizzonte di senso e non solo gestionale – hanno il dovere di smettere di garantire cornici bonarie e rassicuranti. Non servono “spolverate” di sociale, servono politiche pubbliche coraggiose. Non serve più fare i testimonial, serve ripensare il ruolo: tornare a essere interlocutori scomodi, capaci di aprire conflitti invece di neutralizzarli. Le chat lo confermano: dietro il racconto c’è un metodo. E quel metodo, se non viene messo in discussione, continuerà a produrre la città che già conosciamo: bella da fotografare, difficile da abitare.