Il centro nel nord dell’Albania continua a esistere ma è quasi scomparso dalle cronache. Nonostante costi enormi e numeri molto bassi di migranti ospitati, la struttura è rimasta attiva, mostrando criticità legate alla gestione, ai diritti umani e alla trasparenza. Rapporti di organizzazioni indipendenti denunciano spese folli, prassi illegittime, isolamento dei trattenuti e mancanza di tutele sanitarie e legali
di Daniele De Luca
Che fine ha fatto il CPR albanese di Gjader? Sparito dalle cronache, eppure è ancora lì, nel nord dell’Albania, una vera cattedrale nel deserto. Gli ultimi numeri risalgono al 1 agosto 2025: dal centro sono transitati circa 140 migranti dalla sua ridefinizione ad aprile (quando il centro divenne CPR). Di questi ne sono usciti 113 (40 per mancata proroga, 15 per incapacità sanitaria, 7 per riconoscimento protezione internazionale, altri motivi) e 37 rimpatriati. Attualmente ospitate circa 27 persone.
I costi della struttura
I costi della struttura restano folli: ad esempio, l’allestimento di un singolo posto è stimato oltre 153.000 euro. Il costo operativo giornaliero è stato stimato in circa 114.000 euro nel 2024 per l’intero hub albanese (inclusi Gjadër e Shengjin) secondo studi indipendenti. Il “modello Albania” era stato pensato per accogliere fino a 3.000 richiedenti asilo al mese (!) in una fase iniziale, ma tali numeri non si sono mai concretizzati.
Un rapporto di ActionAid e dell’Università di Bari ha denunciato che nel 2024 il CPR di Gjadër è rimasto operativo per soli 5 giorni, con una spesa stimata di 114.000 euro al giorno per detenere circa 20 persone. Per fare un paragone, lo stato italiano spende circa 137-150 euro al giorno per ogni detenuto in un carcere, una cifra che include le spese per il personale, la manutenzione delle strutture e i servizi. Per le esigenze personali di un carcerato lo stato non spende più di 20-30 euro al giorno. Per un solo trattenuto in Albania, che non può nemmeno definirsi come “detenuto” perché non lo è, si sono spesi 100mila euro al giorno.
Per la realizzazione strutturale (compresa la costruzione della struttura a Gjadër e di quella a Shëngjin), sono stati sottoscritti contratti per circa 74,2 milioni di euro al 31 marzo 2025. Per fare un confronto, l’organizzazione cita il caso di Porto Empedocle, in Sicilia, dove nel 2024 le spese di costruzione sono state di un milione di euro per 50 posti letto effettivi (circa 21 mila euro a posto).
E sempre a proposito di costi, anche il primo rimpatrio effettuato da Tirana il 9 maggio è pesato non poco. Secondo i dati di Altreconomia, l’operazione è costata, solo di affitto charter, 31.779 euro in più rispetto alle spese dell’ultimo rimpatrio partito dall’Italia, considerando la stessa destinazione e a parità di persone. Quindi si è speso 6.300 euro in più per ogni rimpatriato.
Basterebbe questo. Ma c’è anche di peggio.
Criticità giuridiche e diritti dei trattenuti
Secondo i parlamentari del Pd Scarpa e Strada nel CPR di Gjadër avvengono infatti prassi illegittime: un detenuto per il quale la Corte d’Appello non convalida il trattenimento viene riportato in Italia e nuovamente trattenuto nei CPR italiani, senza contatti con avvocati o familiari. Proteste, atti autolesionisti e tentativi di suicidio sono stati segnalati con una media stimata di 2,7 eventi critici al giorno nella struttura.
Il comparto carcerario interno (destinato a soggetti arrestati per fatti compiuti all’interno del centro) non è stato mai effettivamente utilizzato. I Tribunali italiani (in particolare la sezione immigrazione di Roma) hanno non convalidato il trattenimento di migranti trasferiti a Gjadër come provenienti da Paesi che il governo italiano considera “sicuri” (Egitto, Bangladesh, ecc). Questi casi sono stati rinviati alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La Cassazione italiana ha valutato la compatibilità dell’operazione centri Albania con il diritto europeo e ha trasmesso gli atti alla CGUE per chiarimenti, sollevando dubbi sulle misure di trattenimento fuori dal territorio nazionale.
Dalle denunce emerge un sistema di strutture simile a delle vere prigioni, nonostante i trattenuti siano colpevoli di una violazione amministrativa e non penale. Il Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI) – coalizione nazionale di organizzazioni impegnate nel campo della protezione internazionale, del diritto dell’immigrazione e delle politiche migratorie – ha definito questa nuova fase del “modello Albania” un “laboratorio politico permanente”, uno spazio “sospeso” caratterizzato da un’opacità procedurale in cui “si sperimentano pratiche di sospensione dei diritti e di concentrazione del potere esecutivo”.
Nel rapporto del TAI Ferite di confine, pubblicato a luglio, viene sottolineato che la volontà politica di rendere difficoltoso l’accesso ai dati su Gjadër ha creato uno svuotamento degli spazi di democrazia: la mancata informazione da parte delle istituzioni è funzionale a sottrarre lo spazio alla sfera pubblica, marginalizzando chi vi risiede e contribuendo ad una disumanizzazione istituzionalizzata.
Il rapporto del TAI descrive inoltre le modalità del trasferimento in Albania: le persone vengono prelevate la sera, senza informazioni sulla loro destinazione. Un procedimento attuato sistematicamente e senza la giustifica di provvedimenti amministrativi scritti, chiari e motivati. In più, elenca le violazioni di diritti fondamentali che avvengono nel centro, una situazione di violenza strutturale amplificata a causa della sua posizione extraterritoriale ed isolata.
In questo contesto, l’impatto psichico della detenzione amministrativa sulle persone migranti è ulteriormente amplificato. Il TAI riporta, infatti, come alle condizioni strutturali di marginalità tipiche del CPR, si aggiungono l’isolamento linguistico e culturale, la scarsa presenza di mediatori e quello relazionale, determinato dalla distanza fisica con l’Italia, con effetti anche sul proprio diritto alla difesa.
Oltre a ciò, il centro di Gjadër non offre la possibilità di svolgere attività ricreative e non ha una mensa comune, costringendo le persone a consumare il pranzo all’interno della loro camerata, facendo a turno su un tavolino. Infine, si crea anche una situazione di rischio correlato all’extraterritorialità sanitaria.
Come in tutti i Cpr, la “questione salute” è privatizzata: gestita dall’Ente privato che ha ottenuto l’appalto ma sottoposta al controllo dell’ASL di riferimento. Nel caso di Gjadër, il personale assunto è albanese, mentre l’ASL adibita è quella di Roma, sollevano dei dubbi sia sull’effettività dei suoi controlli, sia sul tipo di linee-guida seguite.
A questo proposito, il 28 luglio scorso, dopo un ricorso d’urgenza, il Tribunale di Roma ha ordinato l’immediata liberazione di un cittadino straniero trattenuto nel CPR albanese come misura di tutela del suo diritto fondamentale alla salute. A fine luglio i Garanti per i detenuti del Lazio e di Roma, Stefano Anastasìa e Valentina Calderone, hanno effettuato la prima visita al centro. Nel comunicato si legge: “Il numero estremamente limitato delle persone attualmente presenti nel CPR, appena 27, insieme con la disponibilità di posti nei Centri collocati sul territorio nazionale, rende non giustificato il trasferimento in Albania”. Un’opinione condivisa anche da Fabrizio Coresi, esperto di migrazioni per ActionAid. Coresi ritiene che, con i numerosi posti vuoti nelle strutture italiane, il trasferimento nel Cpr albanese è “irrazionale e illogico”.

