L’indagine ha interpellato mille giovani tra i 18 e i 30 anni
Giovani, un futuro sospeso. Nella ricerca Ipsos-Arci presentata al CNEL l’Italia appare come un laboratorio di instabilità permanente, in cui crescere significa imparare a sopravvivere più che a progettare.
Al CNEL, il 25 settembre, Ipsos e Arci hanno presentato la ricerca “Chiedici se siamo felici. Giovani protagonisti di futuro”. Mille interviste tra i 18 e i 30 anni, mille frammenti che compongono una scena più grande: un Paese che chiede ai suoi giovani di resistere in una precarietà senza orizzonte. I dati parlano con chiarezza: due ragazzi su tre dichiarano che la propria vita è lontana da quella che immaginerebbero, quasi la metà non riesce neppure a pensarsi a cinquant’anni. Non è retorica generazionale: è la diagnosi di un sistema che produce incertezza come condizione normale, come unica forma di appartenenza possibile.
Una fotografia che inquieta
La fotografia non è neutrale. Il 65% percepisce uno scarto forte tra il presente e la vita ideale; chi studia o lavora mostra più fiducia, chi è inattivo o escluso accumula frustrazione e smarrimento. Il malessere non nasce dall’individuo, ma dal contesto: dalla difficoltà a stabilizzarsi, dalla fragilità dei contratti, dal costo della casa, dall’assenza di politiche che sostengano davvero l’ingresso all’età adulta. L’Italia appare come un laboratorio di instabilità permanente, in cui crescere significa imparare a sopravvivere più che a progettare.
Il genere come linea di frattura
Fra i dati più duri, il divario tra ragazze e ragazzi. Le donne giovani segnalano maggiore ansia, meno autostima, più distanza tra vita reale e ideale. È la prova che la disparità di genere non si riduce alle statistiche occupazionali, ma penetra nella percezione quotidiana, nel corpo e nella psiche. Alla retorica della “parità conquistata” si contrappone la realtà di una generazione femminile ancora caricata di stereotipi, ruoli impliciti, precarietà maggiore. Parlare di benessere giovanile senza affrontare questa linea di frattura significa continuare a ignorare la radice politica del disagio.
I giovani da 18 a 30 anni mettono primo posto mettono famiglia e amici, ma al tempo stesso dichiarano esperienze di volontariato, attivismo, petizioni, campagne digitali. È politica in un altro senso: non riconosce i partiti, non si affida alle istituzioni, ma costruisce senso civico nei legami di prossimità e nei movimenti fluidi della rete
Famiglia, amicizie, volontariato: la politica altrove
I giovani non sono indifferenti, semplicemente cercano altrove. Al primo posto mettono famiglia e amici, come se la dimensione privata fosse l’unico ambito di sicurezza. Ma al tempo stesso dichiarano in gran numero esperienze di volontariato, attivismo, petizioni, campagne digitali. È politica in un altro senso: non riconosce i partiti, non si affida alle istituzioni, ma costruisce senso civico nei legami di prossimità e nei movimenti fluidi della rete. Se la politica istituzionale legge questo solo come disaffezione, perde la possibilità di capire che un’altra domanda di partecipazione è già in atto, fuori dai suoi confini.
Dal semaforo generazionale alla responsabilità collettiva
La proposta lanciata al CNEL – una Valutazione d’Impatto Generazionale con un “semaforo” accanto a ogni norma di bilancio – è interessante, ma rischia di ridursi a un gesto cosmetico. Un semaforo può segnalare, ma non cambia la direzione del traffico. La questione è più radicale: assumere che ogni decisione economica e sociale è anche una decisione sul futuro delle generazioni. Senza questo sguardo lungo, la politica resta gestione del presente, un amministrare senza visione.
La ricerca Ipsos-Arci non è un bollettino sociologico da archiviare: è una sveglia collettiva. Dice che i giovani non si rassegnano, ma si muovono in spazi diversi da quelli previsti. Dice che il genere è la nuova faglia di disuguaglianza. Dice che la precarietà non è più eccezione ma regola. Di fronte a questo, non bastano indicatori né buone intenzioni: servono scelte che restituiscano possibilità di emancipazione. Perché la domanda implicita che trapela dal titolo della ricerca – “chiedici se siamo felici” – ha già una risposta: non ancora, non così.
Qui la ricerca IPSOS-ARCI presentata al CNEL.
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