Delle pene e dei diritti: i ribaltamenti logici dei Decreti Sicurezza

Apr 11, 2025 | Opinioni

Dario Colombo, Direttore de Il Melograno, nel 1999 fu tra i soci fondatori e ha svolto per molti anni il ruolo di Presidente. Laureato in Lettere moderne, si occupa della progettazione e dello sviluppo delle politiche sociali della cooperativa.


“La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”.

Nel 1764, Cesare Beccaria componeva queste righe, disponendo le basi di una riflessione sulla pena intesa come misura proporzionata al delitto, orientata alla dissuasione e aperta alla possibilità di riforma, radicando così l’idea che il diritto dovesse agire per costruzione di civiltà. In quelle parole si riconosce l’avvio di una delle prime architetture laiche del diritto penale moderno, maturata proprio a Milano.

Da Milano, nel 2025, si scrive oggi per commentare un nuovo Decreto Sicurezza. L’ennesimo. Un testo che aggrava pene per reati minuti, colpisce chi manifesta dissenso, chi si alza, chi interrompe l’obbedienza e rivendica il diritto a non assentire.

Il Decreto Sicurezza del 7 aprile 2025 si colloca in una linea normativa che estende e intensifica l’esistente, allargando la portata di reati già previsti, accentuando il rigore sanzionatorio, moltiplicando le ipotesi punibili. In luogo di una nuova architettura giuridica, propone un’estensione per addizione, senza articolare un principio ordinatore né delineare un assetto coerente. Tra i passaggi più rilevanti, figura l’inasprimento delle pene previste per le lesioni a pubblico ufficiale, accompagnato dall’introduzione di un’aggravante quando l’episodio si compie alla presenza di minori. Quei minori vengono qualificati come testimoni vulnerabili, e in quanto tali, destinatari di una severa protezione normativa. La medesima cornice normativa prevede tuttavia che una donna condannata, anche se madre di un neonato, possa essere condotta in carcere. Le misure alternative che erano state pensate per rispondere alla fragilità della condizione materna vengono ridotte a eventualità marginale. Il principio che tutelava i legami precoci tra madre e figlio risulta svuotato nella sua portata effettiva, e la fragilità, nel nuovo scenario, perde centralità giuridica, diventando una variabile subordinata.

Il diritto penale diventa codice identitario

Il linguaggio impiegato nel Decreto Sicurezza si dispone lungo un registro espressivo che privilegia termini come decoro, oltraggio, fermezza, allontanandosi, già nel lessico, da una posizione descrittiva o tecnica. Le parole non costruiscono una griglia di garanzie, né si articolano secondo un principio di proporzione tra gesto e risposta sanzionatoria: la norma si offre come atto di riconoscimento simbolico, e il diritto penale si trasforma in codice identitario. L’aggravante prevista per gli episodi in presenza di minori sembra quasi rispondere, più che a criteri di lesività oggettiva, a una necessità di segnare confini morali, introducendo un ulteriore elemento di giudizio nel cuore stesso della punizione.

Molti passaggi contenuti nel decreto sembrano iscriversi in una grammatica dell’esposizione più che in un dispositivo di regolazione: si dispongono come enunciati che rispondono a un’esigenza comunicativa e simbolica, spostando il centro dell’azione normativa dal bilanciamento alla visibilità. La legge, all’interno di questa configurazione, tende a smarrire la propria vocazione ordinativa e assume un profilo performativo, in cui le categorie giuridiche non si limitano a delimitare ciò che è vietato, ma modellano ciò che deve risultare riconoscibile, selezionando i comportamenti in base alla loro distanza dalla figura attesa, non alla loro lesività. In questa traiettoria, la pena si emancipa dal principio della commisurazione, si distende oltre il suo fine dichiarato e si configura come gesto che segna, isola, distingue.

Nelle carceri sovraffollate, in cui il lavoro resta una possibilità remota, il principio costituzionale della rieducazione del condannato si ritrae, lasciando spazio a un tempo inerte.

Il carcere, così, abbandona la funzione di contenimento e si espone come spazio scenico, dove la condanna si traduce in figura, e il condannato si allinea progressivamente a un’identità pubblica da delimitare, come corpo da sorvegliare e come voce da ridurre fino all’afonia. Si assiste così a una mutazione simbolica, in cui la sanzione non assume più il ruolo di risposta proporzionata, ma quello di rappresentazione normativa: un atto che incide lo spazio pubblico, lo orienta, lo istruisce. Il diritto penale si fa teatro, non solo come luogo della messa in scena, ma come dispositivo che produce un senso condiviso dell’alterità, tracciando confini prima ancora di giudicare, predisponendo figure esemplari da osservare, più che soggetti da ascoltare.

Un episodio esemplare, emerso nel 2024, restituisce con nitidezza la deriva di cui si è detto. Accadde proprio a Milano, nell’istituto penale minorile intitolato a Cesare Beccaria, il giurista milanese da cui siamo partiti, che nel Settecento teorizzò la proporzionalità della pena come fondamento di un diritto moderno e civile. Il 21 aprile di quell’anno, tredici agenti vennero arrestati con accuse che non evocavano deviazioni individuali, ma delineavano un sistema: violenze reiterate, prassi abusive, lesioni sistematiche nei confronti di minori detenuti. Altri otto operatori furono sospesi. Le indagini restituirono un contesto in cui la divisa sembrava assolvere più alla funzione di protezione dell’abuso che a quella di presidio della legalità, e in cui l’assenza di dispositivi di sorveglianza visiva coincideva, di fatto, con una sospensione strutturale di ogni controllo.

La funzione rieducativa

L’articolo 27 della Costituzione afferma che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, indicazione che non si limita a un auspicio ma si configura come vincolo operativo, incardinato con precisione nel sistema normativo. Il dettato, però, non sempre trova corrispondenza nella sua effettiva attuazione: il dispositivo detentivo tende a sospendere la funzione educativa, scegliendo di trattenere senza accompagnare in chiave rieducativa, nella pratica disattendendo sin dalle premesse le proprie funzioni e l’obiettivo di ridurre la possibilità di recidiva. Nelle carceri sovraffollate, in cui il lavoro resta una possibilità remota, il principio costituzionale si ritrae, lasciando spazio a un tempo inerte, che accumula giorni, scegliendo di consumare ciò che dovrebbe trasformare.

Come funziona in Europa?

La funzione assegnata al carcere varia sensibilmente nei diversi contesti europei. L’istituzione penale in molte democrazie viene interpretata come extrema ratio, inserita in una logica di contenimento selettivo più che di risposta automatica.

In Norvegia, Paese in cui il tasso di recidiva a due anni rimane stabile sotto il 20% (Norwegian Ministry of Justice, 2022), gli istituti si articolano in unità di dimensioni contenute, distribuite in modo decentrato e orientate alla responsabilizzazione progressiva. Nella struttura di Halden, per esempio, l’assenza di sbarre alle finestre e l’accesso garantito a cucina, biblioteca e spazi comuni testimoniano un’idea di reinserimento che prende corpo nell’esperienza quotidiana.

In Portogallo, nel 2023, oltre il 40% delle sentenze penali è stato trasformato in percorsi alternativi alla detenzione, costruiti intorno a obblighi specifici: riparazione del danno, partecipazione a percorsi formativi, collaborazione con i servizi sociali o sanitari: la pena si profila come processo trasformativo, più che come mera determinazione temporale.

Le condanne inferiori ai sei mesi in Germania si traducono raramente in detenzione effettiva: nel 2022, solo il 5% di queste ha comportato un ingresso in carcere. Sono diffuse le misure semiaperte, le attività di pubblica utilità, le autorizzazioni per studio e lavoro, che contribuiscono a mantenere un legame operativo con il contesto esterno.

Anche in Italia esistono strumenti simili, ma il loro funzionamento è discontinuo: il 30% dei condannati è oggi in misura alternativa, ma le disparità territoriali, la fragilità dei servizi e i tempi di accesso ne riducono l’efficacia. Nel caso di pene brevi, il 40% comporta ancora il passaggio in carcere. Eppure i dati sono chiari: la recidiva supera il 60% tra chi sconta tutta la pena in cella, ma scende sotto il 20% tra coloro che accedono a percorsi alternativi

I dati evidenziano un quadro chiaro, che non sembra penetrare il dibattito pubblico. Il discorso sulla sicurezza si concentra sulla sua evocazione, preferendo logiche emergenziali alla costruzione di un assetto ordinario capace di conciliare responsabilità e coerenza istituzionale. La rieducazione, nella configurazione delineata dall’articolo 27 della Costituzione, richiede relazioni strutturate, tempo adeguato, assunzione di responsabilità continuativa. Non basta formularla come principio: essa prende forma soltanto quando viene assunta come compito quotidiano, integrata nei dispositivi organizzativi e agita nelle scelte operative.

Il lavoro, condizione necessaria

La nostra cooperativa sviluppa da anni percorsi condivisi con persone detenute o inserite in misure alternative, integrandone la presenza nella struttura organizzativa e produttiva, senza separare l’inclusione dalle attività ordinarie. In questa trama trovano spazio tirocini iniziali, si articolano percorsi che conducono all’assunzione, si definiscono ruoli attraverso incarichi progressivi capaci di accompagnare, sostenere, restituire fiducia. Biografie personali hanno cambiato direzione quando il lavoro è diventato accessibile, riconosciuto, abitabile. Per esperienza diretta, possiamo tranquillamente sostenere che il lavoro si configura come condizione necessaria per una pena che possa dirsi rieducativa. Il reinserimento inizia nel momento in cui si smette di sospendere la vita, facendo spazio, nella convinzione che l’esclusione non rappresenti un atto cautelare, ma il dispositivo più efficace per riprodurre quella marginalità che si afferma di voler contrastare.

Il carcere si configura anche come forma. Non è soltanto spazio giuridico, ma composizione simbolica che parla attraverso il modo in cui viene raccontata, mostrata, fotografata. La rappresentazione del penitenziario contribuisce a definire ciò che una società sceglie di ignorare oppure di rendere esemplare. Emergono, in questo paesaggio visivo, tracce di un’iconografia che tende meno a documentare e più a drammatizzare, semplificare, neutralizzare. Lo spazio della detenzione si presenta come un’intermittenza: resta invisibile nel quotidiano, salvo poi imporsi nel discorso collettivo quando occorre rafforzare l’idea di controllo. Il racconto che ne deriva si attiva per urgenza, per eccezione, per la necessità di indirizzare il consenso.

Il carcere si staglia come sfondo rassicurante per chi resta fuori, una soglia che delimita e rassicura. Chi vi entra smarrisce la libertà e, con essa, la continuità del proprio ruolo sociale, come sospeso in un tempo e in uno spazio che interrompono la narrazione ordinaria. Il reato, da fatto specifico, tende a dissolversi nella rappresentazione della persona come elemento da contenere, figura da trattenere ai margini. Su questa riduzione si costruisce un’idea fragile di sicurezza, che privilegia l’allontanamento alla comprensione, la rimozione alla responsabilità. In una democrazia matura, anche i luoghi in cui la libertà viene temporaneamente sospesa dovrebbero essere riconosciuti come parte del patto civile, resi leggibili, accessibili, dignitosi. Il carcere continua a esistere, e ciò che al suo interno prende forma interroga l’intera collettività. Le norme non si limitano a regolare i comportamenti: assegnano ruoli, costruiscono identità, attribuiscono senso ai gesti. Definiscono confini che distinguono chi disturba, chi può essere tutelato, chi viene spinto fuori dallo spazio sociale.

L’avvocato Azzeccagarbugli, patrono secolare del formalismo piegato all’occorrenza

Da Beccaria al “Beccaria”

Negli ultimi anni, il linguaggio giuridico ha progressivamente trasformato la complessità delle situazioni in formule operative capaci di orientare lo sguardo prima ancora di intervenire sulla realtà. Termini come “molesto”, “facinoroso”, “soggetto pericoloso” plasmano il campo della devianza prima ancora che questa si manifesti; con le condotte vengono classificati anche i corpi, i volti, i modi di occupare lo spazio, secondo uno schema che attribuisce significato prima ancora di raccoglierlo.

Si disegna un quadro e lo si assume come riferimento, richiedendo che ogni presenza venga ricondotta al suo interno. Chi devia viene trattato come un’anomalia, spinto verso il limite, definito per sottrazione. Il diritto, così inteso, rinuncia alla funzione di misura e si converte in strumento di conferma, più attento a riprodurre un ordine precostituito che a interrogare la realtà: si moltiplicano i decreti che restringono ambiti, aggravano reati, codificano comportamenti. La certezza del diritto viene invocata mentre si allarga lo spazio dell’eccezione. La parola sicurezza finisce per contenere significati variabili, instabili, stratificati. Il linguaggio delle istituzioni si addensa attorno a formule prescrittive, aggravanti ripetute, toni assertivi. Si produce così una nuova stagione di grida. A Milano, città di Beccaria, queste grida suonano come un paradosso evidente: il suo nome campeggia sull’insegna di un istituto penale minorile in cui la pena si è fatta arbitrio.

Nel 2025, la giustizia assume i contorni di quella descritta da Manzoni, più vicina al proclama che al principio. A orientarsi con destrezza tra codici e grida non è il cittadino né il giurista, ma l’Azzeccagarbugli, patrono secolare del formalismo piegato all’occorrenza, figura capace di far apparire diritto ciò che serve al potere, ora interpretando, ora adattando, sempre disponendo senza in definitiva chiarire.

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