Non basta vincere il mondiale: Enriqueta Maroni, le madri e la voce che non smette

Ago 7, 2025 | Attualità

di Redazione

Il 5 agosto 2025 è morta Enriqueta Rodríguez de Maroni. Aveva novantotto anni. Madre, insegnante, testimone instancabile, protagonista delle Madres de Plaza de Mayo – Línea Fundadora. La sua figura resta incisa nella memoria pubblica dell’Argentina non come icona, ma come gesto continuo, azione quotidiana, esercizio politico della verità. Ricordarla significa accogliere la sua storia eccezionale e minuta.

Kempes, Videla e i Mondiali

Nel giugno del 1978 l’Argentina ospita e vince il suo primo Mondiale. I gol di Mario Kempes scandiscono un trionfo costruito con cura: ogni immagine è parte di un montaggio più ampio, che mostra una nazione riunita, gioiosa, compatta. Le tribune sono piene, la televisione internazionale trasmette sorrisi, applausi, cori. In tribuna d’onore, il generale Videla alza il braccio. L’intero Paese sembra battezzato dalla vittoria, pacificato dalla gloria sportiva.

A pochi isolati di distanza, nei sotterranei dell’ESMA, i detenuti politici vengono picchiati, incappucciati, interrogati. Alcuni di loro ascoltano alla radio il boato dello stadio. Altri scompaiono quella notte stessa, senza che le urla vengano trasmesse. Il racconto ufficiale procede senza incrinature.

Tra chi si oppone a quel racconto c’è una donna che non alza la voce, non cerca la ribalta, non si sottrae al compito. Si chiama Enriqueta Rodríguez de Maroni. È madre di quattro figli, insegna in una scuola popolare, ha perso Beatriz e Juan Patricio, sequestrati il 5 aprile 1977 insieme ai rispettivi compagni. Nessun processo, neanche una notifica: solo l’assenza, lunga e sistematica, prodotta da un potere che colpisce i corpi e cancella le tracce.

Durante i giorni del Mondiale, una troupe olandese avvicina Enriqueta per un’intervista. Le sue parole sono misurate, precise, irreversibili. Pronuncia il nome dell’esercito. Pronuncia la violenza. Pronuncia il crimine. Senza esitazioni, senza mediazioni. È una frase semplice, ma costruita per durare. Si rivolge al presente, ma parla già alla storia.

Un gesto che interrompe secoli di rappresentazione

Enriqueta occupa la scena del dolore con atteggiamenti composti, senza gesti cerimoniali e senza scivolare nell’immagine rassicurante della madre sofferente, devota, silenziosa. Con quel suo fare fermo apre una frattura nell’iconografia consolidata, scansando sia la passività sacrificale delle Madonne dei retabli, sia la rassegnazione umile delle madri di guerra dipinte sui calendari o sulle ceramiche. Non si inginocchia. Cammina. Non chiede redenzione. Pretende verità.
Con altre donne partecipa ogni giovedì alla camminata in Plaza de Mayo. Quei fazzoletti bianchi in breve si trasformano in testimonianza civica, dall’incommensurabile valore politico. I nomi dei figli, esposti a telecamere e riflettori, lungi dall’essere preghiere, si rivelano atti pubblici. Ogni passo rifiuta la condizione di vittima e assume la posizione dell’interlocutrice. In quello spazio collettivo, la maternità smette di essere un destino privato e diventa una figura capace di rivendicare il diritto alla verità.

Le donne tra iconografia e realtà

L’agire di Enriqueta – e delle altre madri di Plaza de Mayo – prende distanza da una lunga tradizione iconografica che ha reso le donne interpreti minori della storia, assegnando loro il compito di contenere, attendere, accogliere. Enriqueta agisce fuori cornice. E proprio in questo scarto restituisce alla figura materna una forza che nessun mito può contenere.
La sua vita non si concentra nell’evento del lutto. Prosegue nell’impegno quotidiano, nell’insegnamento, nella testimonianza, nella costruzione paziente di una memoria che non separa mai il dato biografico dal contesto politico. Per Enriqueta, la ricerca della verità è un compito pubblico, un atto pedagogico, un gesto rivolto alle generazioni che non hanno conosciuto la dittatura, ma che continuano ad attraversarne gli effetti.

Nel 1999 il film Garage Olimpo, diretto da Marco Bechis, porta sullo schermo l’apparato repressivo argentino. La violenza, nei suoi frammenti quotidiani, attraversa lo spettatore senza filtri. Il corpo della madre, presente in poche sequenze, regge la tensione del film. La sua posizione non ha bisogno di parole. La si riconosce nel volto trattenuto, nella presenza che non esce di scena.

Nel 2024, il regista brasiliano Walter Salles firma I’m Still Here, film ispirato alla vicenda di Eunice Paiva, moglie del deputato Rubens Paiva, sequestrato e fatto sparire dalla dittatura nel 1971. Eunice costruisce, prima e più di rappresentare, la memoria: raccoglie tracce, espone responsabilità, chiede giustizia. Lo fa senza cambiare ruolo, senza assumere maschere. Rimane donna, madre, vedova. E con quelle stesse categorie diventa interlocutrice della storia.

Anche Felicia Bartolotta Impastato, in Italia, prende parola con la stessa fermezza. Dopo l’assassinio del figlio Peppino, organizza la memoria e la consegna alla comunità. Trasforma una casa in presidio, un archivio in laboratorio civile. Anche in questo caso, la sua voce è lì, protesa alla ricerca della verità.

Enriqueta Rodriguez de Maroni (C) Photo by Juan MABROMATA / AFP

Una postura che non si eredita

La morte di Enriqueta Maroni, avvenuta a novantotto anni, non coincide con la chiusura di un’epoca. Apre invece una questione. Chi oggi si assume la responsabilità di quella postura? Chi si espone, senza chiedere protezione, nel compito politico di nominare, raccogliere, disvelare?
Le figure come la sua appartengono alla memoria minuta, sono attrici del presente, capaci di rimettere in circolo domande essenziali, interrogando il passato che da privato si trasforma in collettivo. Ogni loro gesto afferma che il diritto alla parola va esercitato e che il diritto alla verità è dovere praticarlo.

Nel paesaggio retorico delle commemorazioni, la loro presenza costringe a cambiare vocabolario. Nessun termine sentimentale riesce a contenerle e nessuna retorica del lutto può restituirne il senso profondo di queste donne che, in fondo, sono costruttrici infaticabili ed esemplari di giustizia.

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