Guerra e pace: la battaglia sospesa di Francesco

Apr 21, 2025 | Opinioni

È morto il papa delle nozze con paupertas, il primo a scegliere il nome di Francesco, l’uomo venuto dai confini del mondo per parlare di pace, di povertà, di persone lasciate ai margini. Il suo pontificato, iniziato come discontinuità evidente, si è articolato come una lunga tensione tra parola e forma, tra esposizione e struttura, tra il desiderio di un’altra Chiesa e la resistenza di quella che c’era già.


Dario Colombo, Direttore de Il Melograno, nel 1999 fu tra i soci fondatori e ha svolto per molti anni il ruolo di Presidente. Laureato in Lettere moderne, si occupa della progettazione e dello sviluppo delle politiche sociali della cooperativa.


Le radici gesuite. Un papa figlio del discernimento

La figura di Jorge Mario Bergoglio si è formata dentro una pedagogia gesuita che non ha operato come semplice codice identitario, ma come struttura profonda del pensiero e dell’agire, in grado di orientare lo sguardo verso le soglie, di sospendere il giudizio per lasciare emergere la complessità, di leggere i contesti senza separare la teologia dalla storia. Il discernimento, in questo quadro, ha assunto il carattere di un’operazione continua, radicata nell’esperienza e condotta senza precostituzioni, capace di abitare l’ambivalenza e di riconoscere il tempo come campo del confronto tra chiamata e risposta.

Il pontificato di Francesco si è mosso lungo questa linea, disegnando una forma pastorale che ha evitato la rigidità delle definizioni e ha assunto il movimento come principio d’ordine, lasciando che le frizioni interne ed esterne potessero produrre orientamenti senza doverli ridurre a sintesi premature. Le fratture non sono state curate con la simmetria, ma osservate nella loro asimmetria, come se l’unità non dipendesse dalla cancellazione del conflitto ma dalla capacità di attraversarlo senza congedarsi dalla propria origine.

La radice gesuita, lontana tanto dall’estetica dell’autorità quanto dalla retorica dell’anticipo, ha reso possibile una postura che coniuga libertà interiore e obbedienza concreta, apertura al mondo e fedeltà a una grammatica antica, ascolto dei margini e custodia della forma. L’istituzione, nella misura in cui è stata decentrata, ha potuto rispecchiarsi in una figura che non ha cercato di riformarla dall’alto, ma di interrogarla da dentro, sottraendole il privilegio della superiorità e chiedendole di sostare nel tempo lungo della conversione. La misericordia, divenuta parola emblematica fin dai primi gesti del pontificato, ha funzionato come criterio ecclesiale e insieme antropologico, capace di restituire al linguaggio della Chiesa una prossimità che non disarma, una giustizia che non separa, una responsabilità che non pretende di risolversi da sé.

La voce della pace in un mondo armato

Nel tempo della guerra, intesa come condizione diffusa del presente, il pontificato di Francesco ha preso parola con una insistenza che ha oltrepassato la forma del pronunciamento istituzionale per assumere il carattere di un’intercessione continua. La pace, in questa configurazione, non ha rappresentato una formula da reiterare nei comunicati, né un appello da affidare alla coscienza altrui, ma è diventata una postura esplicita, una lingua che si lascia ferire dalla realtà, un’istanza che attraversa i corpi prima che le strategie. I luoghi visitati – da Lampedusa a Lesbo, da Mosul al Sud Sudan – hanno avuto il valore di atti politici e teologici, nei quali la presenza del pontefice si è caricata di una vulnerabilità dichiarata, voluta, contraria alla logica dell’intermediazione e dell’equilibrio.

In ogni intervento, anche quando consegnato con la discrezione di chi conosce il peso delle parole ripetute, la scelta di nominare i conflitti ha coinciso con il tentativo di sottrarli alla loro naturalizzazione, di riportare in primo piano le vittime, di rifiutare la retorica delle parti contrapposte. Le dichiarazioni pubbliche, le veglie, i viaggi, le preghiere, le lettere hanno composto un corpo verbale che, lungi dal cercare di comporsi in dottrina, ha mantenuto la forma provvisoria e vulnerabile della supplica, della denuncia, della condivisione. In questa traiettoria si è disegnata una geografia della prossimità, che si è lasciata orientare dalla sofferenza, dalla marginalità, dalla violenza più dimenticata.

La postura del papa, in questi frangenti, ha destabilizzato l’ordine dei discorsi ecclesiali e internazionali, rifiutando di farsi garante del potere e accettando al contempo il rischio di una parola che compromette, che prende parte, non protetta da alcuna neutralità. Il gesto di pace, in questa linea, ha funzionato come esposizione, più che come distensione: ha mostrato la possibilità di una Chiesa che si espone per aprire, e che riconosce nel conflitto uno scandalo morale, amaramente costitutivo della condizione umana.

L’opzione per gli ultimi

Tra le scelte distintive del pontificato di Francesco, l’opzione per gli ultimi ha assunto un carattere programmatico e strutturale, come se la Chiesa, per poter riprendere la parola nel mondo, avesse dovuto prima di tutto decentrare sé stessa, interrogarsi sul proprio posto, riconoscere chi era stato rimosso dalla scena. I poveri, i migranti, i rifugiati e gli scartati hanno occupato lo spazio teologico lasciato vuoto da altre retoriche ecclesiali: non come destinatari da assistere, ma come luogo di rivelazione e criterio di giudizio. Nelle parole di Francesco, l’umanità ferita è sempre stata un volto da cui lasciarsi interpellare e l’ingiustizia sociale, confinata troppo spesso, prima di Francesco, in questione etica generale, è sempre stata trattata come ferita storica che attraversa i corpi e chiede riparazione.

A differenza dei suoi predecessori, che avevano privilegiato la centralità dottrinale o la coesione istituzionale, Francesco ha trovato la propria traiettoria nel movimento verso ciò che è in margine, come se la forza della testimonianza risiedesse nel posizionamento, più che nella formulazione. L’evangelizzazione, riletta alla luce della povertà reale e non simbolica, ha assunto una direzione discendente, capace di scendere senza temere di contaminarsi, e di riconoscere nelle periferie esistenziali una grammatica dell’incarnazione, prima e più che un tema pastorale.

Lo spostamento di prospettiva ha generato reazioni forti, dentro e fuori la Chiesa, mettendo in discussione assetti consolidati, gerarchie interiorizzate, e restituendo un’idea di cristianesimo meno regolata, più vulnerabile, esposta al rischio della prossimità. La carità, nel lessico di Francesco, ha indicato una forma di giustizia vissuta nella disparità, come se la fraternità fosse possibile solo a partire da una diseguaglianza assunta, attraversata, non superata per astrazione. La povertà, divenuta luogo teologico e non solo condizione sociale, ha agito come varco interpretativo, rovesciando le direzioni, imponendo un diverso punto di vista, decentrando la parola, chiedendo che la Chiesa imparasse a ricevere prima di pretendere di offrire.

Rinuncia agli averi”, quinta delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi attribuiti a Giotto

La pace come scelta di campo

Fin dai primi interventi, e con maggiore intensità nel tempo segnato da guerre dichiarate e rimozioni strategiche, la parola del papa ha indicato la pace come forma esatta della responsabilità, assumendola come asse di giudizio più che come enunciato da reiterare. Questa centralità si è manifestata attraverso parole e azioni chiare, capaci di attraversare la complessità senza ricondurla a uno schema di alleanze, scegliendo un linguaggio che evita la divisione in campi contrapposti e cerca di riconoscere le forme molteplici della violenza sistemica, rendendole visibili una ad una.

Il rifiuto delle categorie binarie, dei toni bellici della diplomazia, delle retoriche morali costruite sul nemico, ha permesso al papa di sottrarre la parola “pace” al lessico cerimoniale, riaffermandone il significato politico e antropologico. L’appello alla pace ha preso corpo senza neutralità, mostrando come l’asimmetria del conflitto richieda di ascoltare i civili colpiti, di nominare le infrastrutture distrutte, di interrogare le genealogie del rancore. Ogni silenzio, ogni esitazione, ogni formulazione prudente ha portato in sé il peso di questa complessità, senza mai alleggerirla attraverso la presa di posizione rapida o la condanna selettiva.

Scegliendo di collocarsi dentro il tempo lungo della sofferenza, la parola di Francesco ha riattivato l’idea di pace come responsabilità condivisa. Ne ha mostrato la fragilità, senza cercare garanzie di coerenza da parte degli interlocutori, e senza trasformare l’appello in condizione per il riconoscimento. Il valore della parola è emerso nel momento in cui ha saputo, prendendo le distanze dalle liturgie delle agende diplomatiche, farsi memoria viva del dolore, eco di una disobbedienza alla violenza, esposizione consapevole all’incomprensione.

La pace, in questa traiettoria, ha agito come dispositivo simbolico e concreto, in grado di convocare tanto le logiche militari quanto i sistemi mediatici che le sostengono, aprendo uno spazio nel linguaggio, e nel linguaggio un varco nella realtà. La Chiesa, attraverso la voce di Francesco, ha abitato una posizione vulnerabile, rinunciando a ogni pretesa di efficienza e restituendo alla propria parola la possibilità di valere nel momento stesso in cui accetta di non pesare.

Il nodo degli abusi

Nel tempo in cui la Chiesa ha dovuto confrontarsi con la propria parte più opaca, il pontificato di Francesco ha riconosciuto il tema degli abusi sessuali come questione strutturale, mostrando un sistema troppo spesso fin troppo protettivo verso sé stesso più che nei confronti delle persone offese. Le parole pronunciate in diversi contesti, dai viaggi internazionali alle lettere pastorali, hanno espresso una consapevolezza radicale: il danno arrecato alle vittime incide sulla possibilità stessa della testimonianza cristiana, andando addirittura oltre la violenza fisica o psicologica. L’evangelico annuncio della misericordia, limitato dal sospetto di copertura e di reticenza, perde la propria credibilità nel momento in cui non attraversa la giustizia.

A questa consapevolezza non è sempre corrisposta una trasformazione nella forma ecclesiale del giudizio. Le norme introdotte per rafforzare la prevenzione, le commissioni istituite per l’ascolto, gli inviti rivolti alle conferenze episcopali non hanno generato una conversione dell’ordinamento, né hanno ridefinito il rapporto tra giurisdizione canonica e responsabilità pubblica. Le procedure interne hanno continuato ad avvalersi di dispositivi opachi, spesso privi di obblighi di trasparenza, in cui le decisioni si sono concentrate in luoghi non accessibili, senza obbligo di motivazione condivisa, senza criteri uniformi. La disparità di trattamento, la difficoltà di reperire informazioni, l’assenza di restituzione alle comunità hanno segnato una distanza tra la parola pronunciata e il modo in cui l’istituzione ha continuato a funzionare.

Tale distanza è emersa anche nel modo in cui sono stati gestiti i responsabili delle omissioni. In numerosi casi, figure ecclesiastiche coinvolte in meccanismi di insabbiamento hanno mantenuto incarichi di rilievo, proseguendo nella loro funzione senza una verifica esplicita, lasciando intendere che la protezione dell’ordine ecclesiale prevalesse ancora sul riconoscimento della responsabilità. A fronte di dichiarazioni intense e rituali penitenziali, le vittime hanno incontrato resistenze materiali nell’accesso alla verità, nella possibilità di ricevere tutela, nella costruzione di percorsi riparativi. La sofferenza riconosciuta è rimasta, nella pratica, affidata alla bonaria discrezionalità delle singole diocesi, generando risposte eterogenee, frammentarie, spesso difensive.

Un passaggio simbolicamente decisivo è stato il processo avviato nel 2016 all’interno dello Stato Vaticano contro due giornalisti italiani, Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi, accusati di aver divulgato documenti riservati che testimoniavano criticità nella gestione economica e nell’occultamento di comportamenti illeciti. Il fatto che siano stati messi sotto processo i divulgatori – e non i responsabili delle condotte documentate – ha riaperto interrogativi sul rapporto tra trasparenza e potere, tra verità e controllo dell’informazione, tra giustizia e difesa dell’immagine istituzionale. Il tribunale vaticano, privo delle garanzie ordinarie, ha rivelato una persistenza del paradigma autoriferito, in cui la salvaguardia della struttura prevale sull’ascolto del reale.

In questo scenario, la scelta di affidare nel 2017 l’arcidiocesi di Milano a Mario Delpini ha assunto un significato che ha travalicato il piano locale. Le vicende legate alla sua gestione – dal caso Galli alla lentezza nell’intervenire su don Marelli – hanno reso visibile una linea di continuità amministrativa e protettiva, in cui la responsabilità pubblica è apparsa subordinata alla preservazione interna dell’equilibrio. La mancata rimozione, nonostante gli elementi emersi e documentati, ha confermato una linea di protezione silenziosa, in cui l’assenza di sanzioni è apparsa quasi come un deliberato e consapevole vuoto di intervento. Il fatto che Delpini non sia stato incluso tra i cardinali ha avuto un valore segnaletico, senza tuttavia modificare il suo esercizio pieno di autorità sulla diocesi più grande d’Europa.

Nel pontificato di Francesco, la questione degli abusi è rimasta il luogo di una frattura non ricomposta. La richiesta di giustizia si è intrecciata con il linguaggio del perdono senza trovare un assetto normativo che ne garantisse la dignità. Il corpo ecclesiale ha continuato a interrogarsi sul proprio modo di giudicare, senza generare un diritto capace di riconoscere vittime e carnefici.

Papa Francesco da solo sul sagrato della basilica di San Pietro, nella piazza vuota, nel marzo 2020 in piena pandemia Covid

L’inclusione promessa, i corpi rimossi

Se nei confronti degli ultimi il pontificato di Francesco ha agito con parole e gesti inequivoci, la sua relazione con altri soggetti esclusi – come le persone omosessuali, le famiglie non canoniche, le identità non conformi – e con chi, come le donne, partecipa pienamente alla vita ecclesiale senza riceverne riconoscimento simbolico e normativo, è rimasta esitante, affidata a un linguaggio che ha balbettato più che aprire, sfiorando l’inclusione senza assumersi la responsabilità della sua forma. Là dove il dolore era sociale, strutturale, visibile, la Chiesa ha saputo mettersi in cammino; qui, dove la ferita attraversa l’ordine interno e interroga il potere stesso, il passo è rimasto sospeso.

Il pontificato ha pronunciato parole che, per la prima volta in modo sistematico, hanno tentato di avvicinare le figure escluse alla soglia del riconoscimento ecclesiale. Le donne, le persone omosessuali, i fedeli uniti civilmente, le soggettività non binarie sono entrate nel discorso della Chiesa non più come deviazioni da correggere, ma come interlocutori a cui rivolgere una parola distinta dall’anatema. Questo passaggio, pur non producendo mutamenti dottrinali o trasformazioni formali dell’ordinamento, ha segnato una frattura percettiva: chi era stato nominato solo per essere condannato ha iniziato a essere guardato come parte reale del popolo di Dio, senza aggettivi.

Il linguaggio di Francesco, soprattutto nei primi anni, ha espresso una disponibilità all’ascolto che ha disorientato le posizioni più conservatrici, restituendo a molte persone la possibilità di riconoscersi nella Chiesa senza dover negare la propria storia. Non si è trattato di affermazioni incidentali, ma di una trama coerente: dal “Chi sono io per giudicare?” ai richiami contro la discriminazione, dalle aperture sul ruolo delle donne al riconoscimento di forme di amore non canoniche, la voce del papa ha segnato una distanza dalla disciplina escludente. Tuttavia, la struttura ecclesiale non ha accolto quel cambiamento simbolico con forme capaci di generare diritti, e in molti casi ha reagito con irrigidimenti locali, dichiarazioni in difesa dell’ordine naturale, pronunciamenti ostili alla ricerca di nuovi linguaggi. La teologia di genere è stata assimilata a un’ideologia da combattere, l’omosessualità è rimasta fuori da ogni possibilità di riconoscimento sacramentale, il ruolo delle donne è stato confermato come ancillare, anche quando se ne è lodata la presenza. Il gesto d’ascolto si è così esposto a una contraddizione crescente: nel momento in cui la voce che include non modifica l’ordine che esclude, la promessa rischia di trasformarsi in frustrazione e la prossimità in sospensione.

Lo scarto ha generato un senso diffuso di ambivalenza: chi si è sentito accolto ha continuato a vivere in una posizione instabile, senza diritto, senza forma, senza accesso reale alle strutture sacramentali o decisionali.

Milano, in questa traiettoria, non ha rappresentato un’eccezione. La voce pubblica dell’episcopato ambrosiano è rimasta silente o cauta su questi temi, preferendo una narrazione pastorale che ha evitato di compromettersi. Le occasioni per una presa di parola significativa sono state eluse, gestite nel registro interno senza esposizione né rischio.

Milano, la città trattenuta

Nel quadro di un pontificato che ha tentato di aprire i linguaggi della Chiesa, la diocesi di Milano ha continuato a operare come presidio di forma, più che come laboratorio di riforma. La sua struttura amministrativa, la storia del suo clero, il peso delle sue reti parrocchiali e associative ha prodotto una resistenza silente e organizzata, focalizzata su una propria tradizione di equilibrio e di continuità. In questo assetto, l’autorità episcopale è apparsa più impegnata a garantire la tenuta dell’apparato che a interrogarsi sullo scarto crescente tra la città reale e la propria veste pubblica.

La scelta di affidare l’arcidiocesi a Mario Delpini, figura interna, formatasi interamente nel solco ambrosiano, ha confermato questa traiettoria. Non si è trattato di una nomina neutra o tecnica, ma della riaffermazione di un modello in cui il vescovo si limita ad amministrare: la sua presenza ha segnato un tempo di decantazione, in cui la parola dell’episcopato è parsa rinunciare alla capacità di lettura della città, preferendo un esercizio dell’autorità discreto, protetto, quasi distaccato.

Le occasioni in cui Milano avrebbe richiesto una voce capace di nominare ciò che accade – dalle ferite sociali ai conflitti civili, dalle tensioni simboliche ai silenzi sulla giustizia – sono state numerose. Tuttavia, l’episcopato ha scelto la via di una comunicazione interna, frammentaria, affidata a gesti non accompagnati da parole pubbliche, come se la complessità urbana non potesse essere attraversata, ma solo sorvolata. Le parole forti pronunciate da Francesco su povertà, migrazione, diseguaglianza, inclusione non hanno trovato nella diocesi ambrosiana un’eco riconoscibile, né sono diventate dispositivo operativo nei momenti di crisi.

L’eredità di Francesco si misurerà allora nello spazio che ha lasciato aperto, prima ancora che nel cambiamento prodotto. Non si è trattato di una stagione riformatrice, ma di un tempo in cui è tornato pensabile che la Chiesa possa interrogarsi su sé stessa senza cercare immediatamente una conferma.

La Chiesa milanese ha continuato a rappresentare sé stessa come depositaria di uno stile, di una misura, di un’educazione alla moderazione che si è rivelata, in più passaggi, una forma di neutralizzazione. L’assenza di conflitto ha coinciso con la dilazione di ogni possibile esposizione, più che con la costruzione di spazi di dialogo. Con una simile conduzione timida, diremmo trattenuta, la diocesi di Milano ha cessato di essere un riferimento generativo per le altre Chiese, trasformandosi in presidio di autoreferenzialità controllata.

Un’eredità che non si chiude

Alla fine di un pontificato segnato da prese di posizione chiare e da riforme incompiute, la figura di Francesco lascia dietro di sé un’eredità che continuerà a generare domande, riffuggendo da sintesi di comodo. Il suo eloquio, diretto e a volte disarmante, ha forzato i confini della parola papale, avvicinandola al popolo come forse non accadeva dai tempi di Roncalli. Il modo in cui ha pronunciato il dolore, la povertà, la guerra, l’ingiustizia ha modificato il tono del magistero, contribuendo a riscrivere il campo d’azione della Chiesa nel mondo, aprendolo a storie e conflitti che chiedevano di essere attraversati.

Questo spostamento, tuttavia, non ha inciso sulla forma dell’istituzione nella misura in cui avrebbe potuto. Le strutture hanno assorbito il cambiamento senza trasformarsi, e la parola, per quanto nuova, è rimasta spesso senza corpo. Le riforme della Curia, le aperture sul piano del linguaggio, i segni di prossimità hanno avuto effetto sul piano percettivo, ma non hanno generato una redistribuzione reale del potere, né una riscrittura del diritto ecclesiale. La voce di Francesco ha mostrato la possibilità di un’altra Chiesa, senza che quella che c’era rinunciasse davvero a sé stessa.

In questa ambivalenza si colloca il tratto forse più autentico del suo pontificato: l’aver scelto di esporre la figura del papa alla frizione del tempo, senza protezioni dottrinali, senza architetture di consenso, senza appoggi retorici. L’autorità è apparsa come parola pronunciata nel rischio, nella contingenza, nella non autosufficienza. Il governo della Chiesa, in questa visione, ha smesso di coincidere con l’idea di dominio e si è avvicinato alla possibilità di cura, anche laddove la cura non è bastata a modificare le condizioni.

L’eredità di Francesco si misurerà allora nello spazio che ha lasciato aperto, prima ancora che nel cambiamento prodotto. Non si è trattato di una stagione riformatrice, ma di un tempo in cui è tornato pensabile che la Chiesa possa interrogarsi su sé stessa senza cercare immediatamente una conferma. In questa disponibilità all’incompiuto risiede forse la parte più fertile di un pontificato che ha indicato il problema, senza tuttavia riuscire sempre ad offrire una soluzione.

Foto di copertina: Flickr Marco Garro

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