
Dario Colombo, Direttore de Il Melograno, nel 1999 fu tra i soci fondatori e ha svolto per molti anni il ruolo di Presidente. Laureato in Lettere moderne, si occupa della progettazione e dello sviluppo delle politiche sociali della cooperativa.
Un percorso laterale, un tragitto critico tra le arti per salutare il gigante della fotografia scomparso il 23 maggio 2025 all’età di 81 anni
Nel documentario Il sale della terra, Wim Wenders rallenta il passo e si dispone all’ascolto. Non guida il racconto, ma segue un movimento più profondo, lasciando che siano le immagini a generare senso. Intorno alla figura di Sebastião Salgado costruisce un tempo sospeso, una soglia abitabile, un invito a restare. Lo sguardo non attraversa, ma accompagna.
L’opera di Salgado si costituisce come stratificazione di presenze, di geografie vissute, di corpi che persistono. Ogni fotografia trattiene una durata, ogni serie produce un’architettura etica del mondo. In Workers, Exodus, Genesis, Amazônia, la realtà appare con tutta la sua evidenza: concreta, fragile, resistente. Le immagini non illustrano, ma convocano. Nel tempo in cui la visione accelera, la sua fotografia richiede un altro ritmo. Chi guarda si trova dentro una relazione che implica attenzione, coinvolgimento, responsabilità. Le immagini aprono spazi abitabili: non per custodire, ma per accogliere l’urto del reale. Guardare, in questo orizzonte, coincide con il riconoscere, e riconoscere comporta un compito.

La scomparsa di Salgado produce uno scarto percettivo. Viene meno una voce visiva capace di sostenere il peso del mondo senza aggredirlo, capace di offrire forma a ciò che resta e valore a ciò che eccede. Le sue immagini continuano a esistere, ma il gesto da cui nascevano — fatto di lentezza, precisione, rispetto — assume oggi una risonanza ancora più urgente.
Per questo, senza disporre genealogie, si può proporre un percorso laterale, un tragitto critico tra le arti. Alcuni autori, in altri linguaggi, hanno cercato forme analoghe di verità. Non si tratta di confrontare, ma di affiancare. Di evocare risonanze che illuminano, da prospettive diverse, le molteplici dimensioni di un’opera che attraversa il nostro tempo senza consumarlo.
Salgado ha offerto uno sguardo che continua a riguardarci. Riconoscerlo significa conservarne la traccia, senza scorciatoie né commemorazioni.
Lo sguardo che accompagna – con Wim Wenders

La luce attraversa gli alberi di un parco silenzioso. Cade sulle foglie, scivola sulle superfici lisce dei muri, si posa sulle mani che lavorano. In Perfect Days, Wim Wenders costruisce un tempo che respira. Ogni inquadratura ha il passo dell’attesa, ogni gesto ripetuto si apre a una forma di riconoscimento. L’immagine si fa spazio abitabile, presenza discreta, durata condivisa. In questo modo di guardare si riconosce la stessa tensione che attraversa l’opera di Sebastião Salgado. Entrambi si affidano alla lentezza come metodo, alla precisione come scelta, alla prossimità come responsabilità. Le immagini nascono da un attraversamento, da una continuità di contatto, da una fedeltà alla materia viva del mondo. Salgado ha camminato lungo le pieghe del pianeta con lo stesso sguardo che Wenders rivolge ai margini delle città. Le fotografie si dispongono secondo un ritmo interiore che accoglie, raccoglie, sostiene. Ogni volto appare intero, ogni paesaggio conserva la sua voce. La luce non isola, accompagna. La composizione orienta senza chiudere. Il tempo si lascia sedimentare.
Wenders dispone ogni elemento con cura. Affida significato agli oggetti minimi, ai movimenti essenziali, agli intervalli. La forma del suo cinema crea luoghi in cui il mondo può essere avvicinato. Le figure si muovono con lentezza, abitano l’inquadratura con rispetto, costruiscono una presenza che include chi guarda senza costringerlo. Salgado lavora nello stesso modo. Ogni fotografia produce una relazione. Lo sguardo non preleva, ma rimane. L’incontro tra autore e soggetto si fa visibile nella scelta della distanza, nella qualità della luce, nella misura dell’ascolto. L’immagine agisce come legame, come eco, come appello.
Wenders e Salgado non convergono su un tema, si incontrano in una qualità dello sguardo. Entrambi restituiscono il mondo come possibilità condivisa. Entrambi costruiscono opere che restano, perché fondate su una fiducia tenace: quella che, anche nei luoghi più fragili, si possa ancora sostare, osservare, attraversare con cura.
L’attesa che struttura il tempo – con Hopper e Hitchcock

In una stanza appena illuminata, una figura guarda fuori dalla finestra. Le tende disegnano una soglia, la luce taglia il pavimento, la scena trattiene il respiro. Edward Hopper dispone il mondo con la precisione di un architetto e la solitudine di un narratore silenzioso. Ogni quadro contiene un tempo che insiste, una sospensione che prepara senza rivelare. Quella stessa sospensione abita il cinema di Alfred Hitchcock. L’inquadratura non accompagna l’azione, ma la genera. L’attesa si costruisce nella composizione, nel ritmo, nella distribuzione esatta della luce. Lo spazio non descrive, ma prepara. Ogni gesto ha un peso, ogni oggetto una funzione narrativa. L’immagine non mostra ciò che accade: mostra la possibilità che qualcosa accada. Salgado si muove all’interno di questa tensione visiva con una intensità diversa, ma affine. Le sue fotografie non organizzano il reale secondo la logica dell’accadimento. Le figure non si muovono verso un esito, ma si collocano in una durata che resiste al consumo. Ogni scatto costruisce un margine. Ogni luce ha una direzione. Ogni corpo si dispone all’interno di una architettura percettiva che chiede attenzione.
Hopper costruisce silenzi. Hitchcock costruisce pressioni. Salgado costruisce presenze che non chiedono di essere risolte. L’inquadratura diventa un campo di responsabilità. Lo spettatore non osserva, ma partecipa. L’immagine non cerca una reazione, ma un coinvolgimento pieno, meditato, esposto. Nelle fotografie di Workers, la posizione dei corpi richiama la frontalità drammatica delle figure hopperiane. Il fango, il peso, la luce obliqua restituiscono ai gesti una gravità che eccede il momento. In Exodus, la disposizione delle famiglie nei campi, il silenzio degli occhi, la distanza contenuta del fotografo, costruiscono una tensione che non si scioglie. Lo spazio non protegge, ma custodisce.
In Amazônia, la foresta entra in scena con la stessa forza narrativa che Hitchcock attribuisce alla casa, alla scala, alla finestra. Gli alberi costruiscono la scena. La luce la articola. I corpi si inseriscono come elementi necessari, mai decorativi.
Hopper, Hitchcock, Salgado: tre autori che compongono immagini dense, misurate, essenziali. Tre forme del tempo che si addensa. Tre modi di dire che ogni cosa, prima ancora di accadere, chiede di essere guardata fino in fondo.
La luce che sostiene – con Renzo Piano

Renzo Piano costruisce spazi che rispettano il contesto. Ogni edificio nasce da un ascolto preciso del luogo, delle condizioni atmosferiche, della materia che lo circonda. La luce non viene aggiunta alla forma: partecipa alla sua definizione. Ogni dettaglio ne regge la presenza, ogni superficie le assegna un ruolo. La trasparenza, la leggerezza, il ritmo delle aperture disegnano una forma che non divide, ma connette.
Salgado fotografa secondo un principio simile. Ogni immagine prende posizione nello spazio con rigore. Il paesaggio non serve da sfondo. Il corpo umano si dispone con discrezione. La luce percorre le superfici, apre varchi tra le ombre, scivola sulle cose con la stessa esattezza che Piano affida ai suoi materiali. La fotografia non cerca l’impatto, ma costruisce un campo visivo che raccoglie. La bellezza, quando emerge, non risolve. Mantiene.
Le immagini di Genesis e Amazônia contengono questa tensione continua tra forma e mondo. La foresta diventa struttura. Il fiume orienta la composizione. Le comunità che abitano quei luoghi entrano in relazione con l’ambiente secondo un ordine che Salgado non forza, ma riconosce. La luce, come nei progetti più silenziosi di Piano, sostiene la narrazione senza occuparla. Si posa, si distribuisce, incide con misura.
Entrambi costruiscono opere che si fondano sulla precisione. Ogni passaggio risponde a un’esigenza interna. Ogni elemento trova la propria collocazione senza prevaricare gli altri. L’equilibrio non genera stasi, ma responsabilità. La forma non esibisce coerenza, la pratica. Il risultato è un campo sensibile in cui il visibile non si chiude mai in una superficie, ma si organizza in profondità. Salgado sceglie la luce con la stessa esattezza con cui Piano disegna una linea. Ogni fotografia diventa un sistema che regge il peso del mondo. Non per alleggerirlo, ma per renderlo visibile.
Il reale come compito – con Pier Paolo Pasolini

La scrittura di Pasolini si dispone come esercizio di fedeltà. Ogni parola sostiene un mondo che preesiste. Ogni frase regge un’urgenza. Il linguaggio non allontana, rende visibile. I corpi, le città, i gesti quotidiani si inseriscono in una grammatica che rispetta la materia. Il racconto si compone secondo un rigore interno, senza concessioni. L’effetto non prevale mai sul senso.
Nelle fotografie di Sebastião Salgado emerge una forma simile di attenzione. Ogni immagine costruisce una presenza piena. Il volto, la mano, la postura, il paesaggio: tutto entra in relazione attraverso un ordine preciso. La luce segue il disegno. L’inquadratura regge. Il mondo appare senza mediazioni.
Pasolini scrive per portare in primo piano ciò che resta ai margini. Non cerca l’eccezione. Riconosce l’evidenza. Il suo sguardo insiste. La scrittura segue. Il ritmo si piega alla verità dell’incontro. Anche Salgado compone secondo questa esigenza. Ogni fotografia raccoglie una vita che si offre. Nessun dettaglio viene forzato. Ogni elemento trova la sua collocazione. La prosa pasoliniana mantiene una tensione costante. La poesia incide. La parola assume un peso che non si disperde. Anche l’immagine di Salgado concentra, trattiene, costruisce densità. Ogni scatto possiede un equilibrio autonomo. Ogni corpo mantiene la propria forza. L’insieme si organizza senza perdere contatto con la realtà che rappresenta.
Entrambi riconoscono alla forma un ruolo decisivo. Scrivere, per Pasolini, significa rispondere a un mondo che chiede attenzione. Fotografare, per Salgado, comporta la stessa responsabilità. Ogni scelta formale agisce come presa di posizione. La rappresentazione non serve a decorare. Serve a rendere conto.
Pasolini ha sempre scritto con il mondo davanti. Salgado fotografa con la stessa chiarezza. Entrambi si affidano alla realtà come fonte. Entrambi lavorano per darle voce.
E ora la pittura
Dopo aver camminato tra le arti, proviamo ora ad accostare Salgado ai pittori. Il suo sguardo esatto e inquieto rimanda, in un certo qual senso, all’inquieta disperazione che anima i dipinti di Egon Schiele. I suoi corpi spigolosi, sospesi in ambienti freddi e sudici, conservano una forza che non si spegne. Una forza sensuale, esposta, vibrante. In Schiele la carne si contorce, in Salgado si offre. Non cede, ma si mostra. È una carne che porta il peso del mondo, che si sporca nel fango delle miniere, che cammina nei deserti, che regge.

Questa stessa materia ritorna nelle opere migliori di Gustave Courbet. I corpi che lavorano, che scavano, che trasportano. La fatica che si deposita sulle mani, la terra che si compatta sotto i piedi. L’origine del mondo si mostra nel suo legame inscindibile con la materia. Salgado attraversa questa stessa materia, la raccoglie con uno sguardo che costruisce, che dispone, che rende giustizia a ciò che resiste.

E poi Édouard Manet. Il gesto che si ferma, lo sguardo che taglia, la figura che occupa lo spazio con una chiarezza che non cerca approvazione. La pittura non interpreta: dispone. L’immagine non racconta: espone. In Salgado, ogni figura appare con questa stessa precisione. La luce ritaglia, la composizione trattiene, il mondo si presenta nella sua pienezza, senza risparmio.
Nel passaggio silenzioso tra queste immagini, tra la tensione spigolosa di Schiele, la massa viva di Courbet, l’essenzialità drammatica di Manet, si riconosce la linea che attraversa la fotografia di Salgado. La linea che unisce il corpo alla verità. La linea che dà forma al reale.

Epilogo
Buonanotte, Sebastião. Gigante a cavallo dei millenni. Nel salutarti abbiamo giocato, volando — come la tua macchina fotografica — tra un autore e un altro, in un viaggio tra i più grandi. Un modo affettuoso per provare, ancora una volta, a metterti a fuoco. Buonanotte.