Secondo l’Istat l’indice di povertà assoluta supera il 22% tra chi paga un affitto , mentre per i proprietari di case è sotto al 5%. E così la situazione abitativa – assieme al titolo di studio e agli ostacoli all’integrazione dei cittadini stranieri – rappresenta sempre di più un’emergenza sociale
Dopo il Rapporto della Caritas, che ha scattato la fotografia della povertà in Italia utilizzando come parametro le richieste d’aiuto inoltrate al circuito dei Centri d’ascolto aperti nelle varie parrocchie, è il turno dell’Istat rendere noti i dati relativi all’anno 2024. Di fatto la situazione pare cristallizzata, così come le criticità rilevate. Famiglie numerose (il 21,2% dei nuclei con cinque o più componenti è in condizione di povertà assoluta), residenti nel Mezzogiorno (18,5%), con almeno un componente straniero (30,4%, che sale al 35,2% se la famiglia è straniera tout court). Il ritratto dei poveri è sempre quello e già questo certifica un’incapacità, o magari un lassismo consapevole, nell’affrontare la questione concentrandosi sui suoi lineamenti ormai consolidati, magari intervenendo sulla legislazione legata all’immigrazione per rimuovere gli ostacoli all’integrazione effettiva che rappresentano un vulnus acclarato per chi non è nato nel nostro Paese.
Situazione abitativa e povertà
A differenza di quanto fatto dall’Istat stesso, che nel comunicato stampa di presentazione della propria ricerca ha puntato sui dati assoluti (e ci mancherebbe altro…), sul numero dei componenti familiari e sull’istruzione (oltre che sulle condizioni lavorative) come “antidoti” alla povertà, noi vogliamo accendere un faro sui numeri legati alla situazione abitativa. A fronte di un Paese di “proprietari di casa”, dato che a questa categoria appartiene il 73,5% dei cittadini italiani, risulta che la povertà assoluta si concentri in maniera evidente in quel 18% che vive in affitto e ha quindi un canone mensile da pagare. Tra queste famiglie, quelle in condizioni fragili sono il 22,1%, mentre tra chi una casa la possiede la percentuale scende drasticamente, attestandosi al 4,7%.
La conferma che il caro affitti morde come non mai, erodendo in maniera significativa le risorse destinate alla spesa per consumi. Il politico di turno, magari pensando il dato come contrazione del potere d’acquisto più che come specchio di esistenze precarie, se la caverebbe sentenziando che “c’è bisogno di un cambio di passo”, locuzione ormai talmente inflazionata da suonare come una stucchevole… supercazzola di monicelliana memoria. Di fatto stiamo parlando di un tema che è diventato centrale e che, complice una sostanziale inedia politica legata proprio a quel 73,5% di popolazione che ancora è immune avendo potuto investire sul mattone, rischia di trasformarsi in un problema epocale.
Gli interventi pubblici sono sempre all’inseguimento di un bisogno che accelera, col fiato corto e le idee confuse. Oltre che azzoppati da finanziamenti insufficienti, anche per mancanza di coraggio. Servono progetti che coinvolgano anche il privato sociale nell’affrontare la sfida. Perché, soprattutto nelle metropoli come Milano, anche chi ha un posto di lavoro sicuro rischia di scivolare su quel piano inclinato che deriva verso una fragilità economica proprio in virtù di una spesa per l’abitare che sta diventando sempre più insostenibile. Lo dicono i dati, quelli dell’Istat che hanno il crisma dell’imparzialità e dell’oggettività. Povertà e caro affitti vanno di pari passo e, salvo scelte decise che ridisegnino il contesto immobiliare, la speculazione già in corso e il dilagare dei fondi non faranno che acuire il problema.