Un diritto che interpella anche il nostro modo di lavorare
La notizia è di quelle che lasciano un segno: la Corte costituzionale, con la sentenza n. 115 del 2025, ha riconosciuto il diritto al congedo di paternità anche alla madre intenzionale in una coppia di donne. Un diritto prima negato, ora affermato con chiarezza. Ma soprattutto: una presa di posizione che ha a che fare con il lavoro, con la giustizia e con la realtà. E quindi – inevitabilmente – anche con noi. Il pronunciamento ridefinisce, in termini concreti, cosa significa oggi essere genitori, lavoratori, cittadini. E ci riguarda da vicino perché chi lavora in una cooperativa sociale vive ogni giorno dentro una rete di relazioni, diritti, doveri, aspettative, affetti. Nessuno è fuori da queste domande.
Una questione di giustizia
La Corte ha dichiarato incostituzionale l’articolo 27-bis del decreto legislativo 151/2001, nella parte in cui negava il diritto al congedo di paternità obbligatorio alla madre intenzionale. Una madre, cioè, che ha scelto di esserlo, che si è assunta la responsabilità della cura e che, insieme alla madre biologica, cresce un figlio. Non concederle gli stessi giorni previsti per i padri eterosessuali significava – secondo i giudici – compiere una discriminazione priva di logica e lesiva dell’interesse del minore.
I giudici lo affermano chiaramente: parlare di genitorialità non significa più fare riferimento soltanto alla biologia o a un modello unico di famiglia. Significa guardare ai legami effettivi, a chi si prende cura, a chi cresce insieme. E quando queste scelte avvengono all’interno di un quadro di riconoscimento giuridico – come avviene per le coppie omogenitoriali con entrambi i genitori registrati all’anagrafe – allora negare un diritto equivale a negare una realtà.
Al centro, ancora una volta, il bambino
C’è un punto, nella sentenza, che merita di essere ripetuto: al centro della riflessione è il bambino. È nel suo interesse che va riconosciuta e tutelata la doppia genitorialità, anche quando assume forme diverse da quelle tradizionali. È nell’interesse del minore che le istituzioni devono garantire continuità affettiva, presenza, responsabilità condivisa.
Questo principio – l’interesse del minore come faro delle scelte legislative e giurisprudenziali – è lo stesso che guida ogni giorno il nostro lavoro nei servizi educativi, nelle comunità, nei progetti di sostegno. Lo sappiamo bene: un bambino ha bisogno di essere riconosciuto. E di sapere che chi si prende cura di lui o di lei, anche sul piano simbolico e istituzionale, lo può fare con pari dignità.
Che cosa cambia per noi
La sentenza interpella direttamente il mondo del lavoro. Anche quello cooperativo. Riguarda le nostre politiche interne, le prassi che adottiamo, le risposte che diamo a chi diventa genitore. Chiede a ciascuna organizzazione – pubblica o privata – di aggiornare la propria grammatica dei diritti.
Per noi, che da sempre lavoriamo perché i diritti siano condizioni strutturali, la pronuncia rappresenta un passaggio che conferma una direzione: costruire luoghi di lavoro capaci di accogliere le vite reali delle persone. Senza retorica e senza riserve, nel rispetto delle identità di ciascuno, guardando con sim-patia alle responsabilità effettivamente assunte.
Una responsabilità comune
La sentenza può contribuire a promuovere cambiamenti, diventando riferimento, precedente, cornice. Ora tocca alle istituzioni e agli enti previdenziali tradurre in pratica questa decisione. E tocca anche a noi, come cooperativa, farla nostra e renderla viva: nei nostri protocolli, nelle tutele contrattuali, nel modo in cui guardiamo alle persone che lavorano con noi.
È una questione che ci riguarda, perché ci dice che prendersi cura è un lavoro. E che nessuna forma di cura merita di essere negata, esclusa o rimossa solo per convenzioni culturali. Noi crediamo che il diritto a prendersi cura – e ad essere riconosciuti nella cura – sia uno dei segni più profondi di civiltà. La sentenza della Consulta lo afferma con forza. Noi, ogni giorno, possiamo contribuire a renderlo realtà.