La montagna olimpica si ribella

Lug 4, 2025 | Opinioni


Daniele De Luca, giornalista professionista, milanista. Dopo una lunga esperienza a Radio Popolare Milano, AGR, CNRMedia e altre collaborazioni da alcuni anni si occupa principalmente di comunicazione istituzionale e ufficio stampa. 


Il Marcora e l’Antelao franano nel silenzio degli organizzatori di MilanoCortina 2026

Da settimane il monte Marcora “sgancia”. Ovvero, si sgretola. Lo stesso accade all’Antelao, la seconda cima per altezza di tutte le Dolomiti con i suoi 3.264 metri. Siamo in Valboite, nei Comuni di Borca di Cadore e di San Vito di Cadore, a pochi chilometri (15) da Cortina d’Ampezzo. Cortina la Regina, Cortina l’Olimpica. Da qui passa l’unica strada che collega direttamente Cortina con la pianura, la Statale 51 di Alemagna.

Da settimane dal Marcora si staccano pezzi di roccia che cadono a valle. Nuvole di polvere, massi in caduta libera da altezze vertiginose (ci sono pareti verticali anche di 800 metri) e quando arrivano i temporali, che con queste temperature sfogano piogge fortissime e abbondanti, dai canaloni scende quello che tecnicamente viene definito debris, un mix di acqua, terra, ghiaia e fango che sembra lava, anche per come si muove. Episodi continui. Dal 15 giugno al 1 luglio si sono verificati almeno sei eventi significativi in soli 16 giorni.

In tutti questi 16 giorni né l’organizzazione di MilanoCortina 2026 né la Fondazione MilanoCortina, né SIMICO (la società incaricata del coordinamento lavori per le Olimpiadi) hanno speso una sola parola su questi avvenimenti. Non un comunicato stampa di circostanza, non un post sui social, non una dichiarazione la pur minima di vicinanza alle popolazioni o alle amministrazioni locali. Nulla. Tantomeno a qualcuno è venuto in mente di mobilitare anche solo un manipolo dei 18mila volontari previsti per i Giochi.

“I 18.000 volontari e volontarie di Team26 – si legge sul sito ufficiale dei Giochi – avranno l’opportunità di rendere speciale e memorabile l’esperienza dei migliori atleti e atlete delle discipline invernali, e rappresenteranno l’ospitalità tipica italiana: saranno il cuore e il sorriso di MilanoCortina 2026. I membri di Team26 sono l’anima delle Olimpiadi e delle Paralimpiadi e la forza indispensabile e imprescindibile per la loro riuscita”.

Potevano dare una mano, forse, anche solo un centinaio di questi “campioni del lavoro gratuito in cambio di prestigio” a rimuovere sassi, pulire dal fango, aiutare gli abitanti di Borca e San Vito. No, per chi abita in Val Boite e le Olimpiadi di fatto le subisce, questo non è dato.

La montagna sembra ribellarsi a questa gestione verticistica e schizofrenica dell’ennesimo “Grande evento” all’italiana, i cui costi sono ormai sono fuori controllo. Basterebbe un dato: le opere per mettere in sicurezza i movimenti del canalone dell’Antelao sopra la frazione di Cancìa sono costate 4 milioni di euro. Per la sola pista da bob nuova di Cortina i milioni spesi sono 180.

Si dirà che le Olimpiadi porteranno finalmente opere di allargamento della SS51 Alemagna, nuove gallerie, interventi per rendere più agevole un tratto che soprattutto da Pieve di Cadore a Cortina presenta da sempre molti problemi. Ma tutto viene fatto per rendere il traffico più veloce, perché le auto possano arrivare a Cortina il prima possibile, non per mettere in sicurezza i paesi.

Probabilmente gli organizzatori dei Giochi sanno che d’inverno le cose cambiano. Con il freddo (e a febbraio da quelle parti temperature che in quota arrivano a -20/-30 sono la normalità) il ghiaccio blocca i movimenti della roccia e nulla accade più in basso, a valle, dove passa la statale, dove si deve passare per arrivare a Cortina a meno di non fare altri percorsi con percorrenze che triplicano in chilometri e tempo. Tempo prezioso per arrivare da Venezia, da Milano, il prima possibile. Qualcosa per rendere più sicura l’Alemagna si potrebbe fare. Tenendo conto, per esempio, degli investimenti ANAS per i Mondiali di sci del 2021, la famosa “Smart Road”.

La “Smart Road”

“Sulla SS51 per le opere relative alla Smart Road abbiamo investito complessivamente circa 27 milioni di euro su di un percorso lungo 80 km che attraversa 7 centri abitati dotato di 336 postazioni polifunzionali e di una control room ubicata nella nostra casa cantoniera Bigontina a Cortina d’Ampezzo – aveva spiegato ANAS – quando il progetto diverrà operativo i principali beneficiari di questa straordinaria innovazione tecnologica saranno gli utenti che percorrono quotidianamente queste strade per lavoro o per turismo. Lo sviluppo della Smart Road sugli 80 km della statale 51, con l’installazione di “Road Site Unit” con tecnologia CV2X (Cellular Vehicle to Everything), rappresenta la copertura su singola tratta più estesa in Europa”.

Ma a che cosa serve questa Smart Road? Dal 2021 a oggi, a parte il tricolore che si illumina la sera, la funzione di questi bellissimi pali non l’ha capita nessuno. Sempre ANAS scrive: “a pieno regime, con la Smart Road l’utente potrà godere di servizi informativi riguardanti la deviazione dei flussi di traffico nel caso di sinistri, suggerimenti di percorsi o traiettorie alternative, gestione di accessi, parcheggi e rifornimenti. E in proiezione futura diventerà la strada che ospiterà le auto a guida autonoma”. In attesa delle auto a guida autonoma, quale suggerimento potrà mai dare il ‘palo intelligente’ se nel frattempo dall’Antelao o dal Marcora scende un fiume di ghiaia che blocca la strada con migliaia di metri cubi di materiale? Quale percorso alternativo? O si torna indietro, o si va a Cortina a piedi. Questi sono gli unici percorsi alternativi possibili in Val Boite. E del resto, il problema non è certo di oggi.

Un po’ di storia

Antelao e Marcora franano da sempre. È nella loro natura, sono montagne esposte ad eventi atmosferici con pareti verticali altissime e fatte di dolomite, che non è granito. È anche il segreto della loro incredibile bellezza. Se i primi abitanti di Borca decisero di costruire il paese sotto uno sperone di roccia che di fatto fa da tetto per eventuali crolli dall’alto, forse c’era un motivo.

Ma anche gli “antichi”, anche la Magnifica Comunità Cadorina che già dal 1200 era una comunità indipendente senza marchesi o nobili, nei secoli ha pagato il suo conto all’Antelao e al Marcora. Ricordi tramandati nei secoli ci rimandano al 1348 quando fu distrutto il leggendario villaggio di Villalonga, che si ritiene si estendesse da San Vito a Vodo: la frana fu causata da un terribile terremoto e, pare, cambiò faccia alla valle.

Nel 1730 venne travolta la parte nord del paese di Borca; i morti furono 52. Alcuni documenti, conservati presso questo stesso Comune, descrivono una grande frana che il 7 luglio 1737 causò 30 morti e la completa distruzione della frazione Sala.

Il 21 aprile 1814 tre frazioni, fra cui Taulèn e Marceana sulla riva destra del Boite, furono distrutte. I morti, si stima, furono 314. Fu la frana più disastrosa nella storia delle Dolomiti a memoria d’uomo e lasciò un segno indelebile nella storia del paese. Sopra Taulèn è sorta Villanova di Borca.

Nel 1868 gravi danni alla frazione di Cancia e 12 morti. La stessa zona fu colpita da colate detritiche nel 1994 e nel 1996, con gravi danni alla stessa frazione ma senza alcun decesso. Nel luglio del 2009, 20.000 metri cubi di fango e ghiaia causarono il decesso di 2 abitanti. Il 5 agosto 2015 una gigantesca frana di quasi 100.000 metri cubi provocò ingenti danni al paese di San Vito e causato la morte di 3 persone.

Dunque, come si fa?

Sostiene il geologo bellunese Emiliano Oddone, intervistato da Il Dolomiti: “La montagna ci impone limiti che noi dobbiamo saper ascoltare. Le scarpate sono limiti facilmente percepibili e chiunque, a meno che non abbia una tendenza suicidaria, rispetta quel limite. Perché gli altri limiti geologici non vengono considerati?”. E ancora: “Fenomeni di questo tipo si manifestano ormai quasi ogni anno, qui o lì, dentro o fuori dai confini della provincia di Belluno. Da un lato abbiamo la presenza di ammassi rocciosi che localmente in alcuni punti delle Dolomiti risultano intrinsecamente fragili perché fratturati o perché disposti in modo da favorire la franosità, dall’altro l’evidenza di squilibri climatici che fanno registrare anomalie di temperatura e di precipitazioni tali da indurre una recrudescenza degli episodi sia in termini di frequenza che di intensità”.

Un ruolo importante, in questo quadro, ce l’hanno anche la perdita del permafrost in alta quota (che fungeva da “legante naturale” delle parti esposte delle pareti) e le veloci variazioni di temperatura che, senza la progressività delle mezze stagioni, portano al passaggio dal freddo al caldo in qualche settimana, favorendo delle importanti dilatazioni negli ammassi rocciosi che risultano sempre più instabili.  Le piogge primaverili, intensissime e concentrate, innescando poi le colate di detrito.

Quindi? «Si fa la carta geologica, l’esperto segna un movimento di questo tipo con un certo simbolo e un certo colore – spiega Oddone – poi queste carte arrivano in mano ai decisori e talvolta le pressioni sono tali per cui si mitiga, perché altrimenti “non si può fare niente, la montagna si blocca, si blocca l’economia”. Succede così che questi rischi vengono mitigati, sulla carta, prima che fisicamente nei singoli siti pericolosi. E da lì poi si fanno le pianificazioni, e da lì poi si fanno gli errori, inserendo infrastrutture dove non dovrebbero stare. Quante risorse servono per sistemare? Che sensazione di insicurezza e paura rimane all’interno delle comunità locali? Abbiamo visto San Vito di Cadore, qualche anno fa, quando c’è stata la grande colata del Ru Secco che è arrivata in paese e ha causato la morte di tre turisti: il fenomeno impattò anche sugli impianti di risalita, ma in poco tempo si è deciso di ricostruire gli impianti dov’erano, Questo si fa: si rimuove. Si banalizza la complessità rimuovendo, pensando di poter scegliere la strada più rapida, più indolore. Uscendo dalla metafora, non può bastare la logica della somma urgenza, del ripido ripristino della condizione precedente mossi da un interesse, o da un immediato ritorno economico. Si interpretano quegli spazi come aree utili, più che come aree a rischio. Si è già rimosso quanto avvenuto in passato e si va a fare qualcos’altro che può essere poi un domani ancora a rischio. Dobbiamo imparare a rimetterci in ascolto delle nostre terre in una maniera più profonda”.

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