Giovedì 21 agosto lo sfratto dello storico centro sociale. Un fatto politico ma anche simbolico, che segna un ulteriore arretramento di Milano di fronte al processo di omologazione culturale e di svuotamento degli spazi di autogestione e delle esperienze alternative
Lo sgombero del Leoncavallo, storico centro sociale di Milano, non può essere derubricato a questione amministrativa. Né di ordine pubblico. Il blitz di giovedì 21 agosto, con la città mezza chiusa per ferie e mentre era aperto il dialogo con le istituzioni in vista dell’ordine di sfratto previsto per il 9 settembre, è certamente un importante fatto politico – una spallata del governo all’insaputa del Comune, e già molto ci sarebbe da riflettere sulla decisione di colpire uno spazio sociale pubblico in una città nel mirino della speculazione immobiliare e scossa dalle inchieste giudiziarie – ma anche un fatto dal forte valore simbolico, ennesimo segnale della direzione presa da Milano.
Quello della rigenerazione urbana che gentrifica i quartieri, espellendo chi non sta al passo con il listino immobiliare, per accogliere più abbienti – e non problematici – “city users”. Perdere il Leoncavallo – al netto delle responsabilità politiche e di un possibile percorso di regolarizzazione tramite bando pubblico annunciato dal Comune – rappresenta infatti un arretramento ulteriore di fronte al processo di omologazione culturale, che ha come suo presidio di consenso il vocabolario dell’urbanistica cosmetica, e alla conseguente crisi di qualsiasi proposta alternativa, seppure con radici profonde come quelle di un’esperienza che ha attraversato cinquant’anni di storia.

In questa luce appare più coerente, per lo meno come tempismo, un intervento arrivato dopo vent’anni e 133 precedenti tentativi di sfratto andati a vuoto. Proprio mentre di fronte agli spazi del Leoncavallo, nella stessa strada, cresce l’ennesimo progetto residenziale di lusso all’insegna di “sostenibilità” ed “esclusività”, che promette “case oltre ogni immaginazione”.
Una rappresentazione plastica della metropoli verticale, bisognosa di consumi, decoro e di una certa dose di sociale sì, ma non eccessiva. Una spolverata, diciamo. Dall’essere la città dei musei comunali gratuiti, Milano muta in un lussuoso luna park per ricchi in cui tutto si consuma, ha un prezzo, non disturba il sistema. E la vicenda dello sgombero del Leoncavallo si lega così in qualche modo a quella di San Siro, allo svuotamento degli spazi autogestiti fisici e ideali – dal centro sociale alla curva “sterilizzata” – in una privatizzazione progressiva che necessita di consumatori e “non luoghi”, trovando efficace sponda nel disimpegno e nell’astenia civica.

Quale destino per queste aree? Mentre si discute del Pgt, nella cornice dello scandalo edilizio milanese, è il caso di chiederselo. Il Leoncavallo, incastonato in un quartiere dall’anima produttiva e popolare – come tanti trasformati a suon di gentrificazione negli ultimi anni – lascia un vuoto nel cuore di Greco. Un film già visto, nel quale non trovano spazio scenografie alternative, non approvate dalla regia. Lì a due passi c’è la via Gluck, dove c’era l’erba. E ora?