Ai Giochi di Los Angeles 2028 le atlete saranno più degli atleti. Ma il gender cap resta, eccome
Olimpia, siamo nell’anno 776 a.C. ai piedi del tempio dedicato a Zeus. Lo stadio è disegnato, sarà una gara di corsa. C’è aria di festa: è in corso la cerimonia di apertura dei primi Giochi Olimpici della storia. É stata decretata l’Ekecheiria, ovvero la tregua sacra in tutta la Grecia. Nessuna guerra finché sono in corso i Giochi. Sul campo di corsa, nobili greci.
Esclusi dalla partecipazione gli schiavi, gli stranieri, gli assassini, i sacrileghi. E le donne. Che non possono nemmeno assistere.
Nemmeno ad Atene nel 1896, la prima Olimpiade moderna, le donne possono partecipare poiché De Coubertin vuole rispettare la tradizione classica, tuttavia c’è una competitrice non ufficiale alla maratona, una donna greca di umili origini conosciuta come Melpomene. Il nome reale è Stamati Revithi. Non le è consentito correre nella gara maschile, ma correrà da sola il giorno successivo. Nonostante questo gesto, non sarà ricordata nei medaglieri ufficiali.
Per avere le prime presenze ufficiali delle donne, bisogna aspettare i Giochi di Parigi del 1900. Tra i partecipanti, oltre 600 uomini, solo un paio di donne compariranno in gara. Così, una tennista inglese, Charlotte Cooper diventerà la prima campionessa olimpica, vincitrice di cinque titoli individuali a Wimbledon. Solo con le famigerate Olimpiadi del 1936 si inizia a considerare la donna come un’atleta grazie soprattutto alla regista Leni Riefenstahl. Addirittura, come prova della buona volontà dei nazisti, al potere da tre anni, sarà consentita la presenza nella squadra tedesca di Helena Mayer di origine ebrea. I paesi partecipanti sono quarantanove, per un totale di 3.834 atleti di cui 328 donne. Anche l’Italia prende parte alle Olimpiadi del 1936 con la partecipazione di Ondina Valla nella specialità degli 80 metri ostacoli vincendo la medaglia d’oro.

Nel 1996 competono anche le donne musulmane. La protagonista di questa piccola rivoluzione, assurta a simbolo della voglia di riscossa delle donne iraniane, si chiama Lida Fariman che gareggerà nel tiro a segno, una delle poche discipline sportive per le quali le iraniane hanno il permesso di praticare all’estero non violando così l’abbigliamento islamico, che impone alle buone musulmane di coprire tutto il corpo (polsi e caviglie inclusi) e i capelli.
Londra 2012. Per la prima volta dal 1984 il Qatar porterà le atlete donne alle Olimpiadi. Insieme a Brunei e Arabia Saudita il Qatar è l’unico paese a non aver ancora consentito la partecipazione delle donne. Lo sceicco Saoud bin Abdulrahman annuncia al CIO la partecipazione della nuotatrice Nada Arkaji e la sprinter Noor al-Maliki, vincitrice di due medaglie d’oro ai Giochi arabi e per questo eletta atleta dell’anno nel suo Paese.
Il sorpasso: a Los Angeles più atlete che atleti
A Parigi 2024, si arriva alla parità di genere. E a Los Angeles 2028 avverrà il sorpasso. Ci saranno più donne che uomini partecipanti ai Giochi. Precisamente il 50,7% di donne e il 49,3% di uomini, 5.333 atlete e 5.167 atleti.
In Italia le donne che fanno sport sono circa 8 milioni e mezzo e costituiscono il 43,3% del totale degli sportivi. Considerando che le donne sono il 51,1% della popolazione, persiste un divario di genere nello sport che però si è andato progressivamente assottigliando negli ultimi anni in cui sono cresciute soprattutto le atlete agoniste.
Lo sport gioca d’anticipo, ma è specchio della disparità di genere
Il 29,2% delle donne con più di tre anni pratica almeno uno sport (venti anni fa era il 23,3%), e di queste 6 milioni e mezzo (il 21,8%) lo fanno con continuità (venti anni fa era il 15,7%). A queste si aggiungono quasi 9 milioni di donne, il 30,2% del totale, che, pur non praticando sport, fanno qualche attività fisica, per un totale di circa 17 milioni e mezzo di italiane, il 59,4% del totale, che fanno sport o attività fisica. Restano ancora escluse da questa pratica di massa 12 milioni di donne (40,6% del totale).
Ma nonostante le donne rappresentino il 28% dei quasi 4,7 milioni di atleti tesserati in Italia, la percentuale diminuisce drasticamente quando si considerano posizioni dirigenziali. Le donne costituiscono solo il 19,8% degli allenatori, il 15,4% dei dirigenti di società e un esiguo 12,4% dei dirigenti di Federazione.
Lo sport come emancipazione, dunque, ma fino a un certo punto. È la cartina al tornasole di un gender gap ancora molto forte nel nostro paese. Per esempio nelle aree del Centro-Nord, dove le donne che fanno sport sono di più, si crea un circolo virtuoso per cui lo sport praticato diventa un veicolo di emancipazione e sono meno sensibili i divari tra gli uomini e le donne negli altri campi della vita sociale, primo tra tutti il lavoro. Il meccanismo è identico.
La correlazione tra pratica sportiva e occupazione è evidente se si osserva la graduatoria regionale costruita in base al tasso di occupazione femminile, che è quasi coincidente con quella delle praticanti. A fronte di un tasso medio di occupazione femminile che in Italia è del 51,1%, a livello regionale si va da un massimo del 66,2% in Trentino-Alto Adige a un minimo del 30,5% in Sicilia, preceduta dalla Campania, dove il tasso di occupazione femminile è al 30,6%, e dalla Calabria con il 31,8%. Nei territori meno sviluppati la minor pratica sportiva si aggiunge così agli altri svantaggi socioeconomici, con il rischio che le donne rimangano sempre più distanti da una piena inclusione e partecipazione alla vita sociale.
Promuovere lo sport femminile, e promuoverlo soprattutto al Sud, non è solo necessario per superare il divario di genere ancora esistente tra uomini e donne nella pratica agonistica, ma significa condurre sempre più donne nella modernità attraverso una piena inclusione sociale ed economica, che è fatta in primo luogo di un lavoro qualificato e ben pagato.
Lo sport anticipa i tempi ma, nel caso delle donne, dimostra ancora quanta strada ci sia da fare per una vera “parità”.