Mediazione e giustizia riparativa al museo: metodi e tecniche per nuove consapevolezze

Mag 22, 2024 | Opinioni

Quando lo spazio diventa concentrazionario,

la formazione di una rete crea una sorta di “fuori”

che permette all’umanità di sopravvivere.

Fernand Deligny
“L’Arachnéen et autres textes” (Paris: L’Arachnéen, 2008, p. 14)

Anna Chiara Cimoli è ricercatrice in Storia dell’arte contemporanea all’Università degli studi di Bergamo. Co-dirige la rivista “Roots-Routes” ed è responsabile della collana “Museologia presente” per Nomos Edizioni.


Dalla “bellezza” alla giustizia

Fuori dai cancelli del MET Gala, l’evento di raccolta fondi organizzato ogni anno dal Metropolitan Museum di New York, quest’anno si sono presentati, sotto stretta osservazione dalle forze dell’ordine, anche gli studenti e le studentesse che hanno animato le manifestazioni pro-Palestina nei campus universitari.

I soliti guastafeste? Anche, certo: lo scopo era proprio quello di infilare un simbolico piede nella porta e di evidenziare lo scarto fra le dinamiche che attraversano pezzi di città contigui e concettualmente connessi dal fatto di essere istituzioni educative. Di fronte a un guado storico che rimette in causa tanti posizionamenti, mostrando le falle di un modello multiculturale dimentico della “pedagogia degli oppressi” di Paulo Freire (per chi ha voglia di approfondire qui può ascoltare Freire) e poco capace di dare voce a chi è stato posto al margine, va però ricordato che cultura e protesta sono sempre andate mano nella mano: non ci stupiamo che le violenze agite e subite in questo momento suscitino forme di ribellione che bussano alla porta del mondo di quella fantomatica “bellezza” venduta come forma di appeasement con tanta più assertività quanto più i tempi sono bui.

Il mio campo di indagine, la relazione fra musei e colonialità, tocca questioni di territorialità e diaspora, di appropriazione e frontiere: riguarda dunque la relazione fra temporalità e spazialità, consolidata nel XIX secolo dalla forma del museo come palazzo “alto”, preferibilmente eretto in autoassolutorie forme neoclassiche o neorinascimentali. La biblioteca di Alessandria conservava gli “Ulissi delle nazioni”: una copia dell’Odissea per ciascuna delle diverse lingue in cui era stata tradotta, portata dalle navi che circolavano nel Mediterraneo (viaggio-porto-nuovo viaggio: il volume era un esemplare riproducibile, quindi concettualmente un multiplo). Solo con il XVIII secolo, e poi con la formazione degli stati-nazione nella loro intrinseca relazione con il colonialismo codificata lungo l’Ottocento, il museo si è fortificato come una rocca, si è autolegittimato come luogo di salvezza e di tutela suprema, si è organizzato in teche e armadiature, tassonomizzando e “normalizzando” quello che, in altri contesti, aveva potenza incandescente (il sacro, il divino, il rituale, il simbolico). Come scrive lo scienziato politico Achille Mbembe, “il museo non è mai stato storicamente un luogo che accogliesse in modo incondizionato molteplici volti dell’umanità considerata nella sua unità. Sarebbe invece stato, dall’età moderna in poi, un potente dispositivo di segregazione”1. Le collezioni etnografiche e antropologiche, con la loro queerness, il loro stare a cavallo fra sacro e secolare, le loro molteplici rifrazioni di senso, vengono ora aggregate in categorie predefinite, sagomate per poter stare dentro questa o quella vetrina, piegate a dire qualcosa di funzionale al discorso positivista europeo.

Come può questo dispositivo, oggi, rappresentare un mondo in cui le polarizzazioni sono diventate insopprimibili e in cui scontrarsi sembra l’unico modo di parlarsi? Sembra necessario, senza buttare via nulla delle esperienze passate, tornare a studiare per dotarsi di nuove tecniche messe a punto in altre sedi. La mediazione culturale, praticata da molti musei italiani negli ultimi vent’anni in nome di un’ermeneutica aperta, plurale, processuale (così ci siamo allenati a fare e pensare, abbandonando la “didattica museale” degli anni Novanta in favore di uno sguardo più circolare e polivocale), pare avere ora bisogno di un rinforzo: di strumenti affilati che possano venire, provo a suggerire, dalle pratiche della giustizia riparativa. In quella direzione credo sia utile guardare per fortificarsi in tempi di crisi, allenarsi al dissenso, viverlo come un’occasione di crescita. Facciamo ora un passo di lato per immaginare una possibile idea di museo entro cui collocare queste pratiche.

Carta, non calco

L’immagine della conoscenza come mappa in cui ogni punto è interconnesso, fluida, capace di collegare all’infinito (contrapposta al calco come struttura rigida, ovvero al modello psicanalitico che cerca un’origine e le sue filiazioni, lavorando secondo lo schema “dell’albero genealogico”) sta al cuore del pensiero di Deleuze e Guattari raccolto in Rhizome (1975)2, poi diventato l’introduzione di Milles plateaux. Capitalisme et schizophrénie (1980)3.

Nel centenario della nascita di Franco Basaglia sembra importante riflettere sui punti di tangenza e di scarto fra la storia dei dispositivi della cura psichiatrica e della curatela museale. Può la chiusura dei manicomi e il processo culturale che ha sostenuto questo passo epocale essere di stimolo per i musei, assumendo che la metafora (poetica, beninteso) del luogo di detenzione come agente di silenziamento sia valida per entrambi le istituzioni? Ovviamente non intendo dire che le collezioni debbano per forza uscire dai musei e sparpagliarsi sul territorio, né che i musei vadano chiusi tout court (posizione che molti attivisti e attiviste decoloniali sostengono con argomentazioni che vanno comunque ascoltate con attenzione): penso però a nuove cartografie, nuove forme di organizzazione del sapere museale non più lineari, dettate da nessi di causa-effetto o da partizioni binarie, ma sviluppate piuttosto secondo la logica energetica del rizoma, o delle “linee d’erranza”.

Prendo qui a prestito il metodo dello psichiatra e educatore radicale Fernand Deligny, che negli anni ’70 andò a vivere nelle Cévennes con un gruppo di ragazzi e ragazze autistici e afasici, accompagnandone la crescita. Le mappe che derivano dall’osservazione di questi giovani pazienti da parte di Deligny e dei suoi collaboratori vengono chiamate lignes d’erre, linee d’erranza (Lucia Amara, in un bell’articolo su Nazione indiana propone la traduzione “linee di abbrivio”, “perché i tragitti erratici dei bambini autistici, privi come sono di linguaggio e incapaci di un agire mirato, vengono mossi da una propulsione e si implementano solo per la forza stessa con cui si sono innescati, sconnessi totalmente da uno scopo”4). Queste linee, che si sovrappongono con procedimento sommatorio sui fogli (i calchi) sovrapposti alla mappa topografica originaria (la carta), formano tracciati ripetitivi, che procedono per contatti e relazioni; percorsi controintuitivi eppure vitali, per chi li crea.

La grande metafora che regge l’intuizione di Deligny è quella della ragnatela, una rete fatta di infiniti e pazienti punti di contatto, fragile e apparentemente diseconomica, eppure dotata di una sua logica interna: non quella del logos. Ragnatele e rizomi sono dunque contrapposti alla linearità dello spazio-tempo “occidentale”, alle gabbie tassonomiche che stabiliscono il dentro e il fuori, la compliance e l’aberrazione, la conformità e la deviazione.

Appoggiandoci a questo spunto, possiamo forse ripensare le collezioni come corpi che vagano lungo “linee di abbrivio”, seguendo una propria intima necessità espressiva, fuori dalle logiche del noto, del riconoscibile, del prima-e-dopo? Possiamo liberarli in uno spazio “altro” (anche quello del museo, certo, ma ripensato secondo assi di fuga diversi, disarticolato in “mille piani”) e lasciarli fluttuare finché non trovano una nuova voce e un nuovo linguaggio?

Perché questa potenza si dispieghi serve un nuovo modo di pensare e di guardare al futuro. Affinché si lasci allo schiavo “la forza di dare scandalo”, come scrive ancora Mbembe, bisogna immaginare degli antimusei: non istituzione, ma “figura di un altro luogo, quello dell’ospitalità radicale. In quanto luogo di rifugio, l’antimuseo si concepisce anche come luogo di riposo e di asilo senza condizioni per tutti i rifiuti dell’umanità e i ‘dannati della terra’, i testimoni di quel sistema sacrificale che è stata la storia della nostra modernità, una storia che il concetto di archivio stenta a contenere”5.

Non (solo) buona volontà: pratiche, tecniche e strumenti

Se consideriamo praticabile la strada della “liberazione” suggerita da Deligny, Basaglia, Guattari e da tanti altri operatori psichiatrici a partire dagli anni Settanta, e soprattutto se assumiamo come ancora valido il modello epistemologico della ragnatela e del rizoma, possiamo provare ad aprirci a pratiche che pongano al centro la relazionalità come sistema di conoscenza non gerarchico ma interconnesso, ramificato, senza inizio né fine. Un’opera aperta. Per rendere fruttuoso questo modello si tratta di negoziare l’esistente, di smontarlo mantenendo ciò che ha di valido per la nostra epoca e mettendo in discussione ciò che non è più sostenibile. Come farlo?

Prendendo spunto dal fondamentale “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto6, penso a quanto i musei – soprattutto quelli che conservano beni sottratti durante stagione coloniale, ma il discorso vale a vario titolo per tutti quanti – beneficerebbero della conoscenza di pratiche di mediazione del conflitto, del debating (praticato ormai in molte scuole medie e superiori), della ricerca sulle possibili aree di intersezione fra la ricerca nell’ambito giudiziario e in quello museale, delle pratiche di presa di parola e di auto-descrizione usate nei setting psicologi, anche in quelli post-traumatici, rispetto a dinamiche identitarie.

Con un gruppo di colleghi, anni fa, mi sono avvicinata al metodo Betzavta, che lavora attraverso una serie di esercizi codificati per mettere in evidenza le dinamiche del potere all’interno dei gruppi. Con alcuni studenti e studentesse dell’Università di Bergamo, insieme ai professori Ivo Lizzola e Paola Gandolfi, abbiamo frequentato la Casa circondariale e molti musei cittadini (in particolare la Pinacoteca Giacomo Carrara) provando a considerarli, con tutta la delicatezza e l’umiltà del caso, come aule diffuse, o meglio ancora come nodi di una rete educativa che tiene in alto gli stessi valori di tutela delle differenze, cessione di spazio, pluralità degli sguardi, presa in carico delle fragilità.

Non si tratta mai di percorsi lineari, con ricadute quantificabili da metriche a volte un po’ grezze. Parte della fatica sta nel fatto che esporsi comporta dover gestire il dissenso e il disaccordo (in Italia, ma non solo, si passerà metà del tempo a difendersi dall’accusa di praticare la “cultura della cancellazione”, anche non volendo cancellare alcun simbolo, monumento, statua: per fortificarsi rispetto a questa accusa è utile leggere Le statue giuste, ultimo libro di Tomaso Montanari7). Un caso di studio esemplare da questo punto di vista è quello legato alla statua di Edward Colston buttata dagli attivisti di Black Lives Matter nel porto-canale di Bristol nel 2020, in seguito divenuta oggetto di un’interessante consultazione pubblica e di forme di ri-mediazione. Il sito della Museum Association, che riunisce i musei del Regno Unito, riporta altri casi che vale la pena conoscere proprio perché, senza infingimenti, mettono in evidenza la tortuosità delle pratiche, le dinamiche del dissenso, le difficoltà che si incontrano in percorsi segnati da complessità, trauma e silenziamenti. Altri esempi vengono da musei capaci di stare sulla prima linea del dibattito (per esempio quello, oggi caldissimo, sulle restituzioni e la gestione dei resti umani) come il Van Abbemuseum di Eindhoven e il Rautenstrauch-Joest di Colonia, o, per restare in Italia, il Museo Egizio di Torino e il MuCiv di Roma.

Gli oggetti, ci ricordano questi musei illuminati, si sono sempre mossi, come le idee e le popolazioni (ed è interessante notare quanti musei canadesi e australiani pratichino il land acknowledgement, ovvero il riconoscimento, spesso scritto su una targa all’ingresso e ripetuto in apertura di ogni discorso istituzionale, di essere un’istituzione coloniale che insiste sul territorio dei nativi, dunque altrui). Perché questo movimento continui sono necessarie pratiche di giustizia riparativa che facciano incontrare – anche se non necessariamente concordare – chi ha perduto violentemente i simboli della propria cultura e chi li ha acquisiti, chi esprime il concetto di nazione e chi quello di diaspora, chi gestisce i commons e chi non vi si sente rappresentato.  

Deleuze e Guattari scrivono che “si scrive la storia, ma la si è sempre scritta dal punto di vista dei sedentari, e in nome di un apparato unitario di Stato […]. Ciò che manca è una Nomadologia, il contrario di una storia8”. La storia e il suo “contrario” (o potremmo dire il suo rovescio) possono stare ugualmente al museo, ma perché ciò avvenga sono necessari nuovi set di competenze che gli operatori e le operatrici museali potranno mettere a punto lavorando di concerto con le discipline della mediazione, della giustizia riparativa, della diplomazia culturale: una strada cui guardare con interesse, negli anni che verranno.


1Achille Mbembe, “Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia”. Bari: Laterza, 2019
2Gilles Deleuze, Félix Guattari, “Rhizome”. Paris: Les editions de minuit, 1975. 

3Gilles Deleuze, Félix Guattari, “Mille Plateaux”. Paris: Les editions de minuit, 1980.
4Lucia Amara, “Fernand Deligny: tra Rhizome e Lignes d’erre”, in “Nazione indiana”, Milano: associazione culturale Mauta, 27 febbraio 2021
5Achille Mbembe, “Emergere dalla lunga notte”. Sesto San Giovanni (MI): Meletemi editore, 2018.
6[a cura di] Adolfo Ceretti, Guido Bertagna e Claudia Mazzucato, “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”. Milano: Il Saggiatore, 2015
7Tomaso Montanari, “Le statue giuste”. Bari: Laterza, 2024
8Gilles Deleuze, Félix Guattari, “Mille Plateaux”. Paris: Les editions de minuit, 1980, p. 63.


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