Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile.
Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene
Il fine non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini
e di rimuovere gli altri dal farne uguali.
La storia di Ahmed raccontata da Fabio Folchini
A pochi giorni dalla pubblicazione del VII Rapporto di Antigone sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni proviamo a riflettere insieme a chi, di minori in condizioni di svantaggio, ha fatto il proprio lavoro quotidiano.
L’emergenza sanitaria legata alla pandemia aveva visto scendere i numeri dei ragazzi detenuti nei 16 Istituti penali minorili presenti in Italia, che, come si legge dal Rapporto, sono tornati ad essere circa 500. Numeri piccoli, direbbe qualcuno; ma d’altro canto, non si può non evidenziare come, se a causa delle restrizioni sanitarie era stato possibile progettare interventi alternativi alla detenzione, non si è perseguita quella strada che permette un lavoro con i ragazzi orientato alla rieducazione e al reinserimento nella società civile.
L’elemento che pare più preoccupante è il numero in crescita dei ragazzi che entrano negli Istituti dalle comunità, cioè a seguito di un inasprimento della misura cautelare. Un altro elemento che colpisce è il tipo di reato commesso: “solo 18,9% dei reati che hanno comportato la carcerazione ha riguardato reati contro la persona, ovvero la categoria generalmente più seria. Mentre addirittura il 61,2% di essi ha riguardato la meno grave categoria dei reati contro il patrimonio. Ci si sarebbe invece aspettati, essendo il carcere da usarsi quale misura estrema, che venisse destinato solamente agli autori dei reati maggiori.”
Chi sono questi ragazzi?
Ahmed è stato processato “per direttissima” e condannato a 10 mesi di reclusione con sospensione della pena in attesa che nel mese di luglio 2024 vada a processo per altri capi d’imputazione di cui è accusato. Gli articoli violati riguardano l’art. 75 dpr 309/90. Insomma, un vero e proprio criminale che merita tutto il nostro sdegno e il giudizio negativo che d’ora in avanti porterà con sé. Storia chiusa, voltiamo pagina e pensiamo ad altro. Ma questa è “solo” la fine della storia e non abbiamo raccontato nulla di quello che è successo prima, perché sì, prima “qualcosa” è successo.
Era il giugno del 2023 e veniamo contattati dalle forze dell’ordine di un paese dell’hinterland milanese perché è stato trovato un ragazzo minorenne nei pressi della stazione ferroviaria e gli agenti cercano una comunità che possa accoglierlo in regime sull’urgenza. Così conosciamo Ahmed, ragazzo di origine marocchina appena arrivato nel milanese in cerca, come si diceva una volta, “di fortuna”.
Al suo arrivo in comunità accompagnato dagli agenti della polizia locale Ahmed non ha con sé nulla, se non un sacchetto di plastica con all’interno un paio di vecchie scarpe da tennis, una maglietta e un paio di pantaloni della tuta, troppo grandi per essere i suoi; i capelli arruffati, sporchi così come il resto del corpo e quell’odore inconfondibile che ormai conosciamo fin troppo bene, l’odore di chi ha attraversato strade impervie per arrivare fino a qui.
Non parla una parola di italiano o di inglese, solo arabo e un po’ di stentato francese. Nessun documento, niente soldi, nessuna meta prefissata, ma con gli occhi carichi di gratitudine per chi lo stava togliendo dall’inferno che aveva attraversato e gli stava dando un tetto sopra la testa, un letto in cui dormire e qual poco di cibo che lo avrebbe sfamato.
Trascorrono i primi giorni in comunità, gli educatori attivano tutto quanto è necessario per quella che vuole essere una dignitosa accoglienza, si procede ad attivare una mediazione che ci permetta di comunicare con lui, di farci raccontare la sua storia e i suoi desideri.
Ecco, i desideri, qualcosa che ognuno ha il diritto di coltivare e di perseguire, ma che, seppur apparentemente semplici da realizzare, a volte, come nel caso di Ahmed si trasformano in chimere irraggiungibili, eppure sembrano essere lì a portata di mano, facilmente raggiungibili con un po’ di aiuto e una certa dose di pazienza. E pazienza è la parola chiave di questa storia, perché forse non ce ne rendiamo sempre conto, ma la pazienza non è solo una dote di cui è necessario attrezzarsi, ma un lusso che non tutti possono permettersi.
L’ostacolo più grande? Non certo la barriera linguistica: la voglia di imparare l’italiano lo porta a chiedere l’iscrizione in due scuole di italiano, dopo aver fatto la visita per l’accertamento dell’età anagrafica, il permesso di soggiorno per minore età, l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale. Attiviamo i primi contatti con l’Ambasciata del suo Paese d’origine per ottenere il passaporto e la carta d’identità. Ed è qui che tutto inizia a complicarsi. Passano le settimane, i mesi, ma dall’Ambasciata nessuna notizia; dicono di aspettare, di attendere che il suo numero appaia sul sito apposito, che bisogna avere pazienza, appunto, ma niente, nulla sembra accadere e Ahmed deve avere pazienza.
Senza documenti molte cose non sono attivabili per un ragazzo della sua età; Ahmed ha iniziato a parlare l’italiano, quel tanto che basta per farsi capire e per comprendere quello che gli viene detto, ma nessuna scuola professionalizzante (vuole fare il muratore, ma anche l’idraulica o l’elettricista se ne avesse la possibilità) è in grado di poterlo iscrivere ai corsi. Niente sport perché le società sportive senza documenti non possono tesserarlo, niente SIM per il telefono che gli abbiamo messo a disposizione, niente abbonamento ai mezzi pubblici. Ma Ahmed non si abbatte, sa che dovrà solo avere pazienza e che presto tutto cambierà in meglio.
Ahmed è un ragazzo, instaura relazioni con gli educatori, con gli altri ragazzi ospiti della comunità e qualche volta esce dalla struttura per incontrare degli amici (per lo più connazionali) con cui trascorre qualche ora in allegria. Ma più i giorni passano e più il suo umore si fa scuro; iniziano i ritardi nei rientri serali, talvolta salta i pasti, parla sempre meno con gli operatori e quella luce di speranza e gratitudine che aveva negli occhi si affievolisce sempre più.
Bisogna correre ai ripari, dobbiamo darci da fare per sostenerlo, dobbiamo trovare il modo di fargli ottenere i documenti che tanto sono necessari perché il suo percorso di integrazione e di emancipazione abbia luogo, ma cosa fare di diverso da quello che abbiamo fatto finora? Come possiamo accelerare i tempi? Tanto più che tra poco Ahmed compirà gli anni e diventerà maggiorenne? Bè, la risposta è semplice… nulla, dobbiamo solo avere pazienza.
Quali sono gli elementi che determinano l’ingresso o meno in Istituto penale?
Il Rapporto dell’Associazione Antigone suggerisce alcune letture dei dati: non soltanto la gravità del reato, ma il contesto relazionale di cui il minore beneficia. Chi ha garanzie relazionali e sociali evita più di frequente la carcerazione, mentre chi non può contare su contesti familiari e relazionali è più a rischio. I dati sembrano confermare la teoria, con un numero decisamente più elevato di presenze di minori stranieri.
Il decreto Caivano, inoltre, parrebbe aver avuto un peso notevole rispetto ai numeri presentati. Il decreto infatti ha introdotto importanti modifiche al sistema penale minorile italiano, con l’obiettivo di contrastare il fenomeno della delinquenza giovanile. Una delle principali novità è stata l’inasprimento delle pene per i minori coinvolti in reati gravi. Si evidenzia il rischio di un approccio troppo punitivo che potrebbe compromettere il processo di rieducazione e reinserimento sociale dei minori coinvolti nella criminalità. Inoltre, si sottolinea il potenziale effetto negativo sulla prevenzione dei reati, poiché la deterrenza attraverso pene più severe potrebbe non essere sufficiente a contrastare le cause profonde della devianza giovanile, come la povertà, l’esclusione sociale e la mancanza di opportunità. L’inasprimento delle pene minorili solleva interrogativi sull’efficacia del sistema penale nel garantire la giustizia riparativa e il recupero dei minori delinquenti.
È importante considerare anche il rischio di effetti collaterali indesiderati dell’inasprimento delle pene minorili, come un aumento del sovraffollamento nelle strutture penitenziarie giovanili e una maggiore stigmatizzazione dei minori coinvolti nella criminalità, con conseguente marginalizzazione e alienazione sociale. L’inasprimento delle pene minorili dopo il decreto Caivano rappresenta un tentativo di rispondere alle preoccupazioni legate alla delinquenza giovanile attraverso misure punitive più severe. Tuttavia, è essenziale bilanciare la necessità di responsabilità e giustizia con l’imperativo di proteggere i diritti e il benessere dei minori coinvolti, assicurando al contempo un approccio equilibrato che includa anche interventi preventivi e di sostegno sociale per affrontare le radici della devianza giovanile.
Che fine farà Ahmed?
Arriva il mese di gennaio, mese in cui Ahmed compie 18 anni, ed è qui che tutto comincia a cambiare, purtroppo non in meglio; quel bagliore nei suoi occhi è quasi completamente spento, i ritardi sono sempre più frequenti e ci rendiamo conto che la situazione di Ahmed sta precipitando velocemente: nel mese di aprile riceviamo la prima chiamata dai carabinieri di zona dicendo che il ragazzo è stato fermato e ritrovato in possesso di sostanze stupefacenti, ma che sarebbe stato rilasciato in attesa che le indagini giungessero a termine. Assegnazione di un avvocato di ufficio, data dell’udienza preliminare fissata per la settimana successiva e foglio di rimpatrio “sospeso” in attesa dell’esito del procedimento, in quanto il ragazzo è affidato ai servizi sociali territoriali e collocato in comunità.
Cosa fare adesso? Come possiamo muoverci per aiutarlo? E quali le conseguenze della denuncia?
Queste le domande che affollano la nostra mente e a cui dobbiamo assolutamente dare risposta in tempi rapidi. Da lì a poco più di un mese arriva un’altra telefonata dalle forze dell’ordine; Ahmed è stato fermato di nuovo e condotto in caserma per lo stesso reato; ricondotto in comunità racconta di essere stato accusato ingiustamente e di non avere niente a che fare con i reati contestati; questa volta appare davvero preoccupato e spaventato da quanto accaduto, ma la domanda a cui ci siamo sentiti in dovere di rispondere è quella di trovare il modo migliore per aiutarlo in un momento così difficile, non giustificando, ma provando a comprendere, sostenere e tutelare.
In fondo bisogna solo avere pazienza… ma una soluzione alla fine, non l’abbiamo trovata.
Perché Ahmed è arrivato in Italia? Perché i tempi di attesa per ottenere i documenti sono stati così lunghi? E perché ha commesso i reati di cui è accusato?
Purtroppo non sappiamo rispondere a tutte queste domande, ma ci chiediamo se solo quei documenti richiesti fossero arrivati prima, se avessimo potuto iscrivere Ahmed alla scuola per muratori o a quella per idraulici, se solo avessimo potuto fargli frequentare una società sportiva per fargli praticare il calcio che tanto ama e se avesse potuto fare qualche piccolo lavoro legalmente, staremmo parlando della stessa storia?
Perché Ahmed un giorno ha raccontato del suo viaggio sul barcone, della prigionia e delle torture subite, della morte prematura del padre e della malattia della madre, del lavoro al cantiere edile che all’età di 7 anni svolgeva accompagnando i fratelli più grandi alzandosi prima dell’alba ogni mattina e anche del debito che la famiglia aveva contratto con le organizzazioni criminali del suo paese e che era costretta a rifondare anche subendo delle minacce.
Ecco, il perché sta proprio in queste semplici, ma molto dirette risposte che purtroppo accomunano la storia di troppi ragazzi provenienti da quei paesi del Maghreb o dell’Africa Sub-Sahariana, del Medio Oriente o del Bangladesh; il bisogno di soldi per la propria sopravvivenza e per quella della propria famiglia di origine.
Ma i diritti sono davvero uguali per tutti?
Parole come integrazione, diritti, lavoro per qualcuno sono concetti scontati e riconducibili alla forza (o mancanza) di volontà, ma per qualcun altro sono invece sogni astratti, un lusso che si scontra con la dura realtà (o impossibilità) di una società che fatica a integrare, a riconoscere i diritti o a garantire il lavoro a ragazzi come Ahmed che hanno la responsabilità e il peso se non un vero e proprio mandato da parte dalla famiglia che “rinuncia” al proprio figlio per la sua e la propria sopravvivenza.
La povertà educativa e relazionale rappresenta un elemento cruciale da considerare nel contesto della delinquenza giovanile e dell’ingresso nel circuito penale. I giovani provenienti da contesti svantaggiati socio-economicamente spesso affrontano gravi carenze in termini di accesso all’istruzione di qualità, sostegno familiare e opportunità di sviluppo personale. Questa situazione crea un terreno fertile per il coinvolgimento in comportamenti criminali e per l’entrata nel sistema penale. Ahmed aveva bisogno di soldi e non aveva nessun modo per procurarseli se non in una condizione di illegalità, che questa fosse spaccio o lavoro in nero, poco importava, ma la vita ha un valore superiore ad ogni altra cosa, legge compresa.
La mancanza di opportunità educative adeguate può limitare significativamente le prospettive future dei giovani, lasciandoli vulnerabili alla disoccupazione, alla marginalizzazione sociale e alla tentazione di abbracciare vie illegali per ottenere guadagni finanziari. Inoltre, la povertà educativa può portare a una mancanza di consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti, rendendo i giovani più inclini a compiere azioni impulsive e a rischiare l’incolumità altrui e la propria libertà.
Parallelamente, la povertà relazionale, intesa come scarsità di relazioni familiari solide, di reti di supporto sociale e di modelli positivi di comportamento, può esporre i giovani a un senso di isolamento e alienazione. La mancanza di un ambiente familiare sano e di legami sociali significativi può contribuire alla ricerca di appartenenza e riconoscimento in contesti devianti, come bande criminali o gruppi delinquenziali, offrendo un’illusoria sensazione di protezione e appoggio.
È importante riconoscere che la povertà educativa e relazionale non costituisce una causa diretta della delinquenza giovanile, ma piuttosto un fattore di rischio che interagisce con molteplici variabili individuali e contestuali. Tuttavia, investire nella riduzione della povertà educativa e relazionale può svolgere un ruolo cruciale nella prevenzione della devianza giovanile e nel sostegno al benessere dei giovani.
Le politiche pubbliche dovrebbero quindi mirare a promuovere l’equità nell’accesso all’istruzione, al sostegno familiare e ai servizi di supporto sociale, al fine di ridurre le disuguaglianze socioeconomiche e creare un ambiente più favorevole allo sviluppo positivo dei giovani. Inoltre, è essenziale investire in programmi di reinserimento sociale e di sostegno per i giovani a rischio, offrendo loro alternative costruttive e opportunità di crescita personale al di fuori del circuito penale.
In conclusione, la povertà educativa e relazionale rappresenta un importante fattore di rischio nell’ingresso nel circuito penale dei giovani. Affrontare queste forme di povertà richiede un impegno globale per promuovere l’uguaglianza di opportunità e creare un ambiente di supporto che favorisca lo sviluppo positivo dei giovani e li protegga dai rischi associati alla delinquenza.