Il suicidio di Sesto San Giovanni e la morte dei tre carabinieri impegnati nella perquisizione di un casolare per il quale era già stato ordinato lo sgombero hanno evidenziato nel modo più tragico il tema dell’emergenza abitativa. Ma alla base delle due vicende c’è una fragilità umana e un’emarginazione sociale che amplia il campo della doverosa riflessione
di Jacopo Casoni
I casi di cronaca di questi giorni hanno come scenario comune quello dell’emergenza abitativa. Sia a Sesto San Giovanni che a Castel d’Azzano, il dramma si concretizza nel momento di uno sfratto esecutivo o di procedure ad esso collegate, ha una perdita annunciata della propria dimora come causa scatenante. Non si può prescindere da questo dato di fatto nell’analisi di quanto accaduto: il problema del caro affitti o quello delle difficoltà economiche che stanno minando certezze in questo periodo storico decisamente complesso sono vere e proprie emergenze alle quali è necessario rispondere con interventi strutturali e mirati, che le affrontino con una visione complessiva e non si limitino a un “propagandistico” taglio dell’Irpef in manovra.
Ma alla base delle due tragedie dalle quali siamo partiti, una delle quali è costata la vita anche a tre carabinieri in servizio (e questo è ovviamente ingiustificabile al netto della situazione di povertà e smarrimento vissuta dai tre fratelli del veronese), ci sono fragilità non intercettate o comunque sottovalutate.
Il pensionato di Sesto San Giovanni viveva un problema di ludopatia conclamata, il mancato pagamento dell’affitto per due anni, che ha portato allo sfratto durante il quale si è tolto la vita, è stata una conseguenza diretta di questa condizione, anzi di questa patologia. Su questo fronte l’intervento dello Stato da sempre si limita a provvedimenti che promuovono una sorta di “moral suasion” che dovrebbero portare avanti gli esercenti delle attività nelle quali sono posizionate le slot machine o all’allontanamento della sale slot da punti sensibili come gli istituti scolastici. Troppo poco. Soprattutto nessun freno reale a un mercato che porta sì molto denaro nelle casse pubbliche ma è anche un costo sociale non indifferente e crea sacche di disagio sempre più capienti.
A Castel d’Azzano si è concluso nel modo più tragico possibile un percorso umano fatto di una fragilità evidente. I tre vivevano fuori dal mondo, in un isolamento fatale, senza luce, senza rapporti personali, lavorando nottetempo. Avevano minacciato già un anno prima di farsi saltare in aria qualora la situazione fosse precipitata. E di questo erano al corrente i vicini, così come le autorità vista la perquisizione stabilita, con lo scopo di rintracciare materiale esplosivo, che ha avuto l’epilogo che ben conosciamo. Di fatto senza che a quei tre fratelli venisse garantito un supporto per affrontare la marginalità alla quale si erano consegnati per problemi anch’essi presumibilmente patologici non accertati e soprattutto non affrontati per la penuria di strutture che a queste persone possano dare le risposte opportune.
Un sistema carente quello della presa in carico di determinate problematiche, così come quello delegato ad intercettare questi bisogni. All’interno di una società che troppo spesso emargina più che occuparsi delle fragilità emotive e non soltanto di interi spaccati di se stessa. Il tema dell’abitare è centrale, crea povertà e instabilità, ma a volte è la punta di un iceberg, l’ultima goccia che fa traboccare un vaso stracolmo d’altro. Lo sguardo deve scandagliare un orizzonte ampio se si vuole davvero che la rete del supporto sociale sia il più possibile efficace.