di Francesca Melis | Psicologa, Coordinatrice Servizi Educativi
È il mese di gennaio, un giorno di lavoro qualsiasi all’interno di un asilo nido, squilla il telefono e una donna chiede quali siano le date degli open day, quali i costi del servizio e quando apriranno le iscrizioni; aggiunge che sta chiamando tutti i nidi del quartiere, comunali e privati, per avere informazioni. “Sa – dice la signora – mio figlio non è ancora nato, il termine è previsto per giugno, mi interessa sapere se posso iscriverlo a partire dall’anno prossimo perché dovrò rientrare a lavoro”.
Non è infrequente, per chi opera all’interno dei servizi rivolti alla prima infanzia, ricevere telefonate o visite di donne ancora all’inizio della gravidanza che si preoccupano con diversi mesi di anticipo su come iscrivere i propri figli al nido e di quanto questo possa costare, terrorizzate all’idea di non trovare posto e già proiettate al loro futuro rientro a lavoro e alle difficoltà organizzative ed economiche che questo potrà comportare: una difficoltà che riguarda la stragrande maggioranza delle famiglie.
Nidi d’infanzia: servizi per molti ma non per tutti
A confermarlo, nei scorsi giorni è stata pubblicata un’indagine di Altroconsumo che parla di costi inaccessibili per i Nidi, specialmente nelle città del Nord (con primato per Milano con prezzo medio, per un mese di frequenza, a 812 euro), con ridotte disponibilità dei posti nelle strutture pubbliche e conseguente obbligo per le famiglie di rivolgersi al privato (tariffe ancora più alte, pari quasi alla metà di uno stipendio medio). La situazione è ancora più difficile per la fascia dei più piccoli (la “sezione lattanti” che accoglie i bambini tra i 3 e i 12 mesi), con pochissimi posti riservati e con le madri costrette a restare a casa anche ben oltre i mesi di maternità facoltativa.
La parità di genere: un traguardo cui non si punta
I dati parlano da soli e disegnano un quadro in cui la parità di genere resta una chimera, qualcosa di molto lontano, un traguardo cui non si punta, considerato il fatto che senza servizi adeguati per la prima infanzia, risulta quasi sempre penalizzata la traiettoria professionale della madre, indotta, quando non costretta, a lasciare il posto di lavoro, a dimettersi, a tornare a casa e a svolgere il ruolo tradizionale che la nostra cultura le assegna.
La donna torna così ad essere la custode del focolare domestico, vocata all’assistenza e alla cura: il patriarcato è anche questo, o forse – verrebbe da dire – è proprio in questo che trova i suoi presupposti e il suo più profondo radicamento. Un’altra conferma arriva dall’INL (Ispettorato Nazionale del Lavoro) e dai dati relativi alle dimissioni volontarie: nel 2022 su 100 dimessi, oltre 70 erano donne, in molti casi neomamme, impossibilitate a continuare a lavorare.
L’inefficacia delle politiche di sostegno alla neo genitorialità
Le politiche per sostenere i neogenitori, e le neomamme in particolare, non paiono adeguate: il sistema non riesce ad individuare risposte per contrastare il costante calo della natalità e l’innalzamento dell’età media delle primipare, nel promuovere una maggior presenza delle donne nel mondo del lavoro, nonché nel recepire lenti ma costanti mutamenti sociali che segnalano equilibri genitoriali diversi.
Il contesto cambia ma le risposte non arrivano e il quadro dei servizi per i neogenitori sembra addirittura in peggioramento, considerata la micidiale combinazione tra arretramento dei servizi pubblici, costi insostenibili e genitori sempre più maturi e quindi, per ragioni non difficili da intuire, impossibilitati ad appoggiarsi su reti familiari allargate, con presenza di nonni troppo anziani o troppo lontani (residenti dall’altra parte della città o in altra regione). Un capitolo a parte meriterebbe la questione delle madri single, quelle che un tempo venivano definite ragazze madri: il sistema dei servizi sembra non considerarle, quasi fossero ree di una colpa originaria da scontare (per un approfondimento si veda l’articolo di Rossella Pesenti su questo Blog).
Il quadro: preoccupazione, contraddizioni e paradossi
Il quadro è preoccupante e non va sottaciuto. Le donne, le madri, sono spesso costrette a scegliere posti di lavoro senza prospettive di carriera, a preferire impieghi a tempo parziale o a rinunciare al proprio lavoro per occuparsi dei figli. La contraddizione appare evidente: da una parte si grida alla necessità di aumentare le cosiddette “quote rosa” nel mondo del lavoro, parlando spesso del bisogno concreto di trovare al più presto supporti che consentano di conciliare maternità e lavoro, dall’altra si considera ancora normalità – per non dire ovvietà – che sia la madre a rinunciare alla propria professione per occuparsi della prole (le asimmetriche norme sui congedi ne sono la prova giuridica tangibile).
Se ci si spinge oltre, si può rintracciare una ulteriore, e più profonda, contraddizione, meno raccontata ma non per questo meno drammatica, ossia lo strabismo di tutto il segmento di servizi rivolti alla prima infanzia e, più in generale, alle famiglie: da un lato, il pensiero pedagogico è andato via via raffinandosi (progetti educativi mirati, personale titolato e più competente, strutture belle e a misura di bambino), dall’altro si è via via indebolita la funzione di queste unità di offerta, sempre meno pensate per favorire la conciliazione dei tempi degli adulti, dei genitori, delle mamme soprattutto: un modello bambino-centrico che tuttavia porta a far nascere, per tragico paradosso, sempre meno bambini.