Da lunedì lo stadio Meazza non ha più un futuro: il via libera del Consiglio comunale alla vendita dell’impianto e delle aree limitrofe a Milan e Inter ufficializza la fine di una storia durata un secolo. Ma anche un calcio che prosegue la sua metamorfosi da emblema del “pop” a bene di lusso o quasi. Senza più memoria e romanticismo.
di Jacopo Casoni
Il secolo di vita lo festeggerà il 19 settembre del prossimo anno, ma sarà un compleanno amaro per il Meazza e soprattutto sarà uno degli ultimi. Destino segnato a notte fonda di un lunedì qualunque dal voto di 24 milanesi, figli anche suoi che della città è un simbolo, un pezzo di storia, almeno pallonara. Ma non solo, in realtà.
Quello stadio racconta Milano e le sue epoche, il modo di abitarlo da parte di decine di generazioni di tifosi è un po’ un romanzo che accompagna quello più complesso e corposo del Novecento meneghino. E adesso che San Siro affronta il suo Miglio Verde, ad indicargli la via ci sono due ali di folla, colorate di rossonero e di nerazzurro. Perché di quello stadio ciascun tifoso ha una frotta di ricordi, un flusso travolgente di memoria che ora appesantisce il cuore. Pensare che i propri figli non varcheranno quei cancelli, non guarderanno a bocca aperta quegli spalti stracolmi in occasione del loro primo derby, non ascolteranno quel boato che non sarà lo stesso da un’altra parte, anche se poco distante, anche se dentro un impianto più lussuoso e luccicante.

Negli ultimi anni, fatti di giravolte e liti furibonde, i milanesi più volte avevano fatto da scudo al loro San Siro, chiedendo di tutelarlo, di ristrutturarlo piuttosto che smantellarlo, di avere rispetto per lui e per i loro ricordi. Da lunedì sera sembra che tutto sia cambiato, che ci sia stata una resa poco onorevole: ora si parla di futuro, di due squadre che per tornare ai vertici del calcio europeo avevano bisogno di uno stadio moderno, di un asset che riempisse i rispettivi conti in banca; anzi, se ne dovevano costruire due, mica uno soltanto. San Siro è già lontano, sullo sfondo di una vicenda che il tifoso vive già come richiesto dai tempi e come auspicato dai fondi statunitensi che possiedono Milan e Inter: un po’ come un ragioniere, come un esperto di bilanci. Li volevano così, asettici e disincantati, possibilmente benestanti per riempire il nuovo stadio che avrà costi ancor meno accessibili rispetto a quelli di oggi, già molto più alti di quelli di qualche anno fa. Un popolo, anzi due, fatti di turisti del pallone, pronti ad acquistare i classici pacchetti stadio/museo/store, invitati a vivere l’esperienza completa per una cifra tutt’altro che modica. Di popolare resta già poco, non rimarrà probabilmente nulla. Ma un calcio così, per pochi, ha davvero un futuro?
Di certo non lo avrà San Siro, tradito anche da chi giurava che sarebbe rimasto accanto. Da chi c’era quando il derby lo giocavano Rivera e Mazzola o quando la stracittadina valeva una finale di Champions. C’era quando in panchina, se la nebbia non era troppo bassa, vedevi il paltò di Rocco e quello di Herrera; quando Weah fece esplodere uno stadio intero che lo aveva accompagnato, un boato dopo l’altro, dalla sua area alla porta altrui; quando Ronaldo il Fenomeno faceva sussultare gli spalti a ogni scatto, a ogni finta. C’era quando si scavalcava per entrare e la partita la vedevi solo se riuscivi a entrare, perché la tv non la trasmetteva mica; quando le curve srotolavano le proprie coreografie senza gli smartphone a immortalarle. C’era quando Baresi alzava il braccio per chiamare il fuorigioco, quando Zenga volava all’incrocio e passava la paura, quando Ibra incantava e tradiva, quando Trapattoni fermava Pelè, quando sempre lui, dall’altra parte, scriveva la storia a suon di record. Forse questo popolo anestetizzato dal bisogno di un futuro già scritto da altri in altri lidi abbasserà gli occhi ripensando a se stesso e ai suoi ricordi mentre San Siro gli passerà davanti durante il suo ultimo viaggio verso l’oblio. O forse no, purtroppo.