Le condizioni di vita nelle carceri italiane continuano a essere intollerabili, i suicidi nel solo 2025 sono già 51, le rivolte si susseguono ma il Governo non fa nulla.
I detenuti continuano ad aumentare, anche e soprattutto tra i minori, c’è una fetta di popolazione abbandonata e dimenticata.
Suicidi in carcere: sono nomi, storie, persone
In cella ci si uccide con quel che si trova. Un lenzuolo, i lacci delle scarpe. E ci si uccide per disperazione. In troppe carceri italiane, sovraffollate all’inverosimile spesso con sei/otto persone stipate nello spazio che sarebbe al massimo per quattro, non ci sono prospettive, non c’è lavoro, attività sportive, niente.
Recentemente il Corriere della Sera ha raccontato le vicende di Salvatore, Donato, Andrea.
Salvatore è un dipendente dell’Atm ossessionato dal gioco e oppresso dai debiti e dall’alcol, avvicina un uomo in un cortile di Milano e gli punta un coltellino, chiedendogli 20 euro. Quando l’uomo gli dice che ha 55 euro, risponde che va bene e li prende. Lo arrestano pochi minuti dopo. A processo, viene condannato a 3 anni, anche se i soldi li restituisce tutti e anzi dà mille euro, come risarcimento. Finisce nel carcere di Vigevano, lui che era di Polistena. Viveva ancora in Calabria quando i medici di Taurianova gli diagnosticarono «un umore depresso e fluttuante». A causa della ludopatia si era fatto pignorare lo stipendio e sottrarre la casa. Se ne andava in giro a dire che i suoi guai erano dovuti a un «massaggio al piede». Quando entra a Vigevano, il suo avvocato Rocco Domenico Ceravolo si preoccupa, perché Salvatore ha un umore fluttuante e ha già provato a uccidersi. Per questo chiede che sia affidato ai servizi sociali, ma il giudice di sorveglianza dice che la permanenza in cella si deve protrarre perché l’uomo è pericoloso. Non si protrae troppo a lungo, solo qualche giorno, perché Salvatore si impicca. Bastava un po’ di buon senso, dice l’avvocato, per salvarlo. Bastava farlo uscire, dice, invece di inventarsi pericoli immaginari per un poveraccio che aveva rubato l’equivalente di un pieno di benzina, di una cena, nella città dei milionari e aveva restituito tutto, con gli interessi.
Donato viveva con la famiglia nell’alloggio demaniale della cittadella di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, ed era un sovrintendente. Faceva l’agente penitenziario dal 1989. Tra un anno e mezzo Donato sarebbe andato in pensione, ma da qualche tempo non stava bene. Era caduto, lui dice per un calo di pressione. Si era fatto male alla schiena e aveva le caviglie gonfie, così era in malattia. Il 16 maggio, racconta la figlia Marika con una voce che cerca di non tremare, «cominciavano le belle giornate e con mia mamma siamo uscite a far la spesa». Non si erano accorte di quello che girava nella testa di Donato. E invece qualcosa girava, anche se giocava a carte e rideva. Quando hanno aperto la porta di casa e hanno posato i sacchetti sul tavolo, lo hanno visto. Era appeso con una corda alla porta della cucina. Sul tavolo c’era una lettera. Dentro, tutta la disperazione di un uomo che amava il suo lavoro ma non ce la faceva più.
Andrea era da un anno a Regina Coeli. Da almeno un anno non riceveva visite. Nessun colloquio, nessuna telefonata. L’unico ad andarlo a trovare era il suo avvocato, Raffaele Magliaro: «Era in carcere per atti di persecuzione nei confronti della compagna. Quando l’ho conosciuto era un tipo fumantino, irrequieto. Ma dentro era diventato un altro. Un anno fa c’era stata una rivolta, lui si era chiuso in cella. Mai un richiamo, mai un problema». Le cose si stavano mettendo bene per lui, ancra giovane, 52 anni. Diverse assoluzioni e il sì alla liberazione anticipata, 135 giorni in meno: sarebbe uscito tra meno di un anno. Una volta fuori, avrebbe avuto la sorveglianza speciale: obbligo di trovarsi una casa, un lavoro, niente frequentazioni pericolose. Ma c’era un problema: non aveva documenti. «Era irreperibile, non avendo un domicilio. Ma senza documenti un lavoro non lo trovi. E così mi ero attivato con la direzione». All’improvviso Andrea viene spostato a Frosinone: «Ho dovuto ricominciare tutto». Avrebbe potuto andare ai domiciliari, ma dove? Non aveva una casa. «Quando ho saputo che si è impiccato, sono rimasto sconvolto. Mi pento di non essere andato a trovarlo anche a Frosinone. Ma cosa potevo fare? Avrei dovuto rinunciare a una partita di pallone di mio figlio? Potevo fare di più? Speravo di essergli stato utile, di essere riuscito a fare qualcosa. Ma l’unica cosa che poteva salvarlo davvero era uscire».
Quando Irene Testa, garante dei detenuti di Cagliari, è andata in visita nel carcere di Uta, ha notato un giovane con gli occhi azzurri che non le chiedeva niente, a differenza degli altri. Giovanni se ne stava seduto a guardare lo spazio di cielo tra le sbarre. Sulla branda, teneva un libro. Gli ho chiesto se stava bene, racconta, ma sembrava spaesato e il compagno di cella mi ha raccontato che giorni prima aveva cercato di uccidersi. L’avevano trovato con la corda stretta al collo ma gliel’avevano sfilata. Due giorni dopo la visita, si è impiccato. Si è sentita in colpa, Testa. Ho fallito, ha pensato, abbiamo fallito tutti. Li definiscono bipolari o schizofrenici o psicotici, ma i medici del carcere preferiscono bollarli come «antisociali», perché così sono «compatibili» con il carcere. Anche se spaccano tutto. Nel carcere di Sassari, su 536 detenuti, 400 sono in terapia psichiatrica. La madre di Giovanni, 24 anni, un giorno ha letto in una chat di un ragazzo che si era ucciso a Uta e ha pensato che poteva essere suo figlio e ha chiesto. Era suo figlio. Mesi prima lui le aveva detto: se mi succede qualcosa, voglio che siano donati i miei organi. Così, quando Giovanni ha deciso di farla finita, i suoi organi sono stati estratti e Irene si è chiesta se fosse giusto renderlo pubblico, se non fosse un tradimento, la rivelazione di una confidenza privata, di un ultimo desiderio. Il medico l’ha convinta. Ma certo che sì, è una cosa bellissima: ha salvato cinque vite questo ragazzo antisociale.
Il modello carcere italiano ha perso la sua vocazione educativa
Antigone, Defence for Children Italia e Libera – hanno portato la crisi del sistema di giustizia minorile italiano direttamente all’attenzione delle Nazioni Unite. Hanno inviato un documento ufficiale al Comitato ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, che quest’anno esaminerà l’Italia.
Il rapporto lancia un allarme chiaro: il nostro modello di giustizia minorile, un tempo un esempio in Europa, ha perso la sua vocazione educativa per diventare sempre più punitivo. I problemi principali sollevati sono:
- Un sovraffollamento senza precedenti;
- L’apertura di sezioni minorili all’interno di carceri per adulti;
- L’utilizzo di psicofarmaci e la permanenza dei giovani in cella per troppe ore al giorno.
Oltre 100 tra organizzazioni, Garanti e personalità individuali hanno sostenuto questo appello. Per affrontare la crisi, il documento propone l’abolizione del Decreto Caivano e la chiusura della sezione giovani adulti del carcere Dozza di Bologna, chiedendo di tornare a un sistema che sia realmente educativo, e non solo contenitivo.