«Terzo settore affaticato ma ricco di sperimentazione». Intervista a Stefano Arduini

Set 19, 2024 | Cooperazione


Daniele De Luca, giornalista professionista, milanista. Dopo una lunga esperienza a Radio Popolare Milano, AGR, CNRMedia e altre collaborazioni da alcuni anni si occupa principalmente di comunicazione istituzionale e ufficio stampa. 


Dallo Ius Scholae alle “Case del Sociale” passando dai bassi salari. Intervista al direttore di Vita, giornale e impresa sociale editoriale che compie trent’anni

Trent’anni di esistenza, un caso unico nel panorama editoriale italiano. Parliamo di Vita, testata giornalistica e impresa sociale editoriale. Vita, nata nel 1994 su iniziativa di Riccardo Bonacina e dall’alleanza fra un gruppo di giornalisti e un gruppo di organizzazioni sociali del Terzo settore, compie 30 anni.

Abbiamo intervistato il suo direttore Stefano Arduini. Milanese, classe 1974, sposato, tre figlie, una laurea in scienze politiche: dirige Vita Magazine e Vita.it dal maggio del 2018 dopo essere stato per diversi anni caporedattore centrale della testata del non profit.

Arduini, se dovesse fare un’istantanea del Terzo settore in Italia oggi che immagine descriverebbe?

«Domanda che richiederebbe una risposta lunga e complessa, ma se devo fare sintesi vedo un settore affaticato ma vivace. Affaticato per tanti motivi, tra cui le condizioni di lavoro, probanti e impegnative sia come mansionario, e penso soprattutto a chi si dedica alla cura delle persone, sia come riconoscimento economico e sociale. Ci sono ancora troppe zone d’ombra, lavoratrici e lavoratori del sociale fanno più fatica di altri. L’impianto legislativo negli anni è migliorato ma non c’è dubbio che le difficoltà siano notevoli. Da un altro punto di vista il terzo settore resta un bacino interessantissimo di sperimentazioni e di esperienze. C’è ancora una vitalità incredibile con un tasso di innovazione davvero importante. Anche Vita è un esempio virtuoso in tal senso, in un campo difficile come quello dell’editoria in Italia. Resta un trema grande come una casa, ovvero il riconoscimento della politica e della pubblica amministrazione del ruolo che svolge il Terzo settore, perché non si può ragionare solo in termini di fornitura di servizi ad alta qualità e a basso costo. Parliamo di competenze, di capacità e sensibilità che potrebbero essere meglio integrate nel tessuto sociale». 

Vita ha lanciato un appello per l’approvazione dello Ius Scholae. Abbiamo già assisto alle prime schermaglie in Parlamento e i segnali sono tutt’altro che buoni. Si ha la sensazione che si giochi sulla pelle di centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi.

«Sì, anche io a volte ho la sensazione che una parte della politica usi le questioni sociali come bandiere da issare e sventolare in alcuni momenti e poi far cadere tutto nel dimenticatoio. Spero che questo non accada con lo Ius Scholae. È importante, secondo me, precisare un punto spesso trattato maldestramente: lo Ius Scholae non ha niente a che fare con l’ingresso di nuovi migranti. Si tratta di riconoscere alle persone di aver compiuto un percorso educativo completo e di fare parte di una comunità, un percorso che nei fatti comporta la costruzione di un senso di cittadinanza. Se invece si dice che la scuola non è in grado o non è sufficiente a costruire inclusione e senso di cittadinanza, di identità, allora vale per tutti anche per i ragazzi con genitori italiani. Come si può costruire un senso di cittadinanza e di appartenenza se non attraverso la scuola? Se tale non è, nemmeno i nostri figli dunque alla fine degli studi possono dirsi cittadini italiani. O decidiamo che la scuola ha un valore educativo e formativo, e allora vale per tutti, oppure decidiamo che non basta, e allora non vale come ‘prova’ di cittadinanza per nessuno».

Si è parlato molto negli ultimi anni di “Case della Salute”, su come i fondi del PNRR potessero finanziare nuovi servizi di prossimità al cittadino. Durante il Covid non si parlava d’altro, poi tutto è svanito. Si parlava anche di “Case del Sociale”, strutture che le amministrazioni pubbliche possano destinare al Terzo settore a costi minimi e calmierati, per offrire servizi sociali sul territorio. Che ne pensa?

«La proposta mi sembra ottima e meriterebbe più di un ragionamento, alcune sperimentazioni nel Paese ci sono. Con due osservazioni però. La prima: non tutte gli attori del Terzo settore sono in grado di cogestire o di creare connessioni con altri. E in secondo luogo parliamo di un settore spesso chiuso in se stesso, in competizione, auto-referente. Il terzo settore deve sicuramente imparare a fare rete. E le pubbliche amministrazioni faticano a capire che queste realtà non sono solo utili alla collettività ma creano anche sentieri di partecipazione civile, di coinvolgimento attivo della cittadinanza. E qui torniamo al trattamento economico cui sono destinati i lavoratori e le lavoratrici di questo settore, che è davvero un problema cruciale. Si deve uscire dai propri piccoli egoismi e costruire connessioni nuove. In un momento storico in cui larghe fette della popolazione si allontanano da ogni meccanismo di rappresentanza diretta, creare luoghi di partecipazione civica sarebbe di grande importanza».

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