Adolescence, l’urlo muto di una generazione iperconnessa

Apr 3, 2025 | Opinioni

Paola Barachetti, sociologa e psicologa, cultrice della materia per gli insegnamenti di psicologia dello sviluppo e psicologia interculturale dello sviluppo, Facoltà di Scienze politiche e sociali, Università Cattolica di Milano. È direttore tecnico dell’Area Formazione della Cooperativa Il Melograno. 


Adolescence è una serie che non lascia scampo, che non consola, ma inchioda. Così descrivono – da diverse prospettive, Alessandro D’Avenia sul Corriere della sera e Alberto Pellai su Avvenire – quella che potrebbe essere definita una produzione che segna il panorama contemporaneo delle serie tv. Una narrazione che utilizza il piano sequenza, un’unica ripresa continua, scandita da un tempo disturbante, senza interruzioni, che ci conduce nelle vite e nell’intimità dei personaggi, non lasciandoci vie di fuga. Una serie che non cerca il colpo di scena, che costringe gli adulti a sostare nella complessità, che interroga sulla responsabilità dell’essere genitori nell’era tecnologica.

La verità la sappiamo subito, ma è una verità scomoda, incredibile e inaccettabile, perché si svela in un mondo “normale”, del tutto simile al nostro quotidiano. Il dubbio accompagna lo spettatore per tutta la durata della serie, costringendolo a fermarsi in quel labile confine tra verità e verosimiglianza, nel tentativo di capire “il perché”; ciò che precede l’irruzione. Quattro episodi nevrotici scandiscono il tempo con un effetto da asfissia narrativa: tutto accade velocemente, davanti ai nostri occhi e – come in una nevrosi appunto – ciò che accade non viene simbolizzato, ma reiterato.

Sono le 6 di una mattina apparentemente normale in una famiglia “normale”, quando la polizia equipaggiata come un reparto speciale,  fa irruzione nella casa di Jamie, un tredicenne inglese che viene fatto alzare dal suo letto, tra le urla sgomente dei familiari. Un ragazzo nel pieno della pubertà, che sembra un bambino e che, come un bambino, piange, chiede aiuto al padre e si bagna addosso per la paura. In un misto tra incredulità, rabbia e confusione dello spettatore, Jamie viene arrestato e portato via sotto lo sguardo paralizzato dei genitori e della sorella.

Il mondo adulto è “altrove”

In questo susseguirsi di episodi, in quello che The New Yorker rappresenta come un campo di battaglia, la battaglia si svolge nella mente di Jamie, in quella dei genitori, degli adulti intorno a lui che continuano a vivere una vita “normale”, mentre tutto fuori è cambiato, forse nell’illusione e alla ricerca del conforto di ciò che conoscono e che non è più. Un mondo adulto che vive nell’inconsapevolezza e nell’ignoranza, che è sempre  “altrove”, in uno spazio incorporeo dove la presenza psicologica, emotiva, affettiva lascia il campo libero, abbandonando i figli in luoghi sconosciuti. Un altrove ben rappresentato dalla scuola, un ambiente violento e misogino, con insegnanti che non sanno ascoltare, che non vedono, che non riescono a recuperare un ruolo adulto, responsabile, educativo; che utilizzano modi che oscillano dalla condiscendenza opportunistica, all’incapacità di proteggere e regolamentare, fino alla minaccia e all’aggressività.

Un mondo fatto di aggressioni violente, bullismo, vergogna, disprezzo e giudizio che accompagna la vita dei protagonisti di Adolescence, in una delle fasi più complesse e decisive dello sviluppo umano. Già segnata evolutivamente da una continua tensione tra la dipendenza e l’autonomia, l’adolescenza è la fase nella quale i ragazzi costruiscono la propria identità personale e sociale, ridefiniscono le relazioni con le figure di riferimento, affermano la propria sessualità ed esplorano i legami con i pari, in una dimensione di vulnerabilità che trova oggi nella tecnologia uno strumento compensativo per rispondere ai bisogni di appartenenza, riconoscimento e autonomia.

“Genitori normali” nell’era tecnologica

Nello scorrere della storia, episodio dopo episodio, scopriamo che Jamie non è un ragazzo maltrattato o trascurato, non ha subito violenze come si potrebbe immaginare in presenza di un crimine così efferato e come fanno pensare quei casi di cronaca nera che negli ultimi tempi hanno riempito le pagine dei quotidiani: storie in cui un adolescente uccide improvvisamente i familiari o un coetaneo, senza un’apparente ragione, senza un evidente disagio. I genitori di Jamie non sono violenti, sono amorevoli  e impegnati a fare sì che il proprio figlio abbia una vita migliore della loro, sono appunto “genitori normali” e come i “genitori normali” dell’era tecnologica che stiamo vivendo, sono contemporaneamente estranei: al mondo in cui Jamie vive che non conoscono, alla scuola e ai fatti di bullismo e violenza che vengono normalizzati da Jamie e da altri ragazzi “sfigati” che si offrono sullo schermo come vittime di un mondo crudele e senza controllo; perfino ad un linguaggio che li esclude, oscuro e criptico  (incel, manosfera, pillola rossa), che costruisce barriere fatte di codici, acronimi e parole d’odio mascherate da rivendicazione.

Era nella sua stanza, non è vero? …Pensavamo che fosse al sicuro”: un’autodifesa estrema e straziante

Adolescence è una storia nella quale a nessun protagonista viene risparmiato il senso di colpa, in un mondo di adulti inconsistenti, presenti e assenti al tempo stesso, Jamie non appare né mostro né martire, ma l’esito di questa assenza, di una solitudine che normalizza la misoginia attraverso contenuti tossici che si infiltrano nella pseudo-vita online attraverso la vera vita offline, che rimane sullo sfondo impercettibile, ma sempre presente, nel quale si snoda tutta la storia. In questo labile confine così ben rappresentato, tra presenza e assenza, Jamie non è fuori casa o lontano, non sfugge al controllo degli adulti: è sempre presente, in casa, nella sua stanza, un luogo che dovrebbe essere protetto e che invece diventa teatro di una solitudine amplificata.  “Era nella sua stanza, non è vero? …Pensavamo che fosse al sicuro”, queste le parole nella scena in cui i genitori di Jamie si aggrappano all’illusione che nulla sia davvero dipeso da loro. Un’autodifesa estrema, straziante, alla fine di un viaggio che li porta dall’incredulità alla consapevolezza e in un percorso del tutto speculare a quello che compie Jamie dall’inizio della serie, passando dall’ostinazione del “non sono stato io”, “non ho fatto nulla di sbagliato” all’accettazione e alla dichiarazione di colpevolezza.

Ed è forse nell’incontro con la psicologa che Jamie si riconosce, in quello che Lucy Mangan su The Guardian ha definito l’”apice psicologico” dell’intera serie. La psicologa è un’adulta che non costringe Jamie alla confessione, non lo incalza, non lo giudica; sembra invece spiazzarlo più che contenerlo, con un approccio inizialmente disorientante che si muove sul sottile confine tra empatia e ambiguità, ascolto e provocazione. Un’adulta che non è assente, ma presente, che non lo abbandona e torna da lui, in silenzio, con una cioccolata calda, lasciando che sia Jamie stesso, poco a poco a riconoscersi in quello specchio e per la parte nascosta di sé che non era mai apparsa prima così chiara e reale,  scivolando dalla negazione alla consapevolezza.

Gli impatti delle tecnologie digitali su preadolescenti e adolescenti

Chiunque si sia interrogato sugli impatti delle tecnologie digitali sulla psiche e sul comportamento dei preadolescenti e degli adolescenti, riconoscerà in Adolescence un ritratto psicologico e sociale estremamente fedele alla realtà. I dati, la nutrita letteratura degli ultimi anni in tema di danni delle tecnologie su preadolescenti e adolescenti, parlano chiaro: secondo Save The Children, nel 2024 il 40,7% degli 11-13enni italiani utilizza i social media, nonostante la legge lo vieti, mentendo sull’età  o usando quelli di un adulto. Ma il dato più allarmante è nella frequenza e nell’intensità d’uso: gli studi infatti mostrano come bambini e ragazzi impieghino le nuove tecnologie – App e social in particolare – in modo sempre più precoce, frequente e intenso: il 78,3% degli 11 e i 13enni , il 91,9% degli adolescenti (14-17 anni) e il 44,6% dei bambini tra 6 e 10 anni, accede ad internet ogni giorno, con picchi di permanenza superiori alle 5 ore giornaliere tra gli adolescenti.

L’utilizzo distorto e le nuove forme di dipendenza

Con l’ingresso nella preadolescenza lo spazio digitale non è più un complemento, ma il palcoscenico primario della socialità e della costruzione del sé, della propria Web Identity: tra i 14 e i 17 anni il 93% utilizza quotidianamente internet per inviare messaggi, l’84% per guardare video, il 79% frequenta social media, il 72,4% gioca online, con un rischio di incedere in  atti di cyberbullismo che risultano in crescita dal 2022, proprio tra gli 11 e i 13 anni. Appare chiaro che, se da una parte le tecnologie hanno aperto ad un mondo di opportunità prima impensabili, contemporaneamente cresce l’utilizzo distorto e solitario dei dispositivi; un utilizzo sempre più associato a forme di dipendenza, ansia sociale, depressione e disregolazione emotiva, come confermano le ricerche in ambito neuropsicologico ed educativo. Ed è qui che Adolescence colpisce con precisione chirurgica, mostrando un adolescente presente, ma inaccessibile, conosciuto e sconosciuto al tempo stesso, in uno spazio muto che diventa il luogo invisibile di una solitudine e di una rabbia che esploderanno nel mondo reale.

L’illusione del controllo

Nella potenza di questa serie, che non fa sconti e va diretta, l’immagine di Jamie chiuso nella propria vita, negli angusti confini di una cella, nei claustrofobici limiti di un mondo offline crudele e violento, può diventare la fotografia realistica e disturbante di ciò che accade ogni giorno a milioni di bambini e preadolescenti nel mondo. Un mondo reale, nel quale l’accesso ai dispositivi digitali avviene sempre più precocemente: secondo l’ANSA negli Stati Uniti il 92% dei bambini piccoli inizia ad utilizzare dispositivi digitali già nel primo anno di vita e all’età di due anni li utilizza giornalmente. Anche in Italia il quadro non è dissimile, con 8 bambini su 10 tra i 3 e i 5 anni che utilizzano il cellulare dei genitori, sempre più spesso senza una mediazione adulta. I genitori non vedono, non hanno consapevolezza, sono tranquillizzati dal sapere che il proprio figlio è in casa, sotto l’apparente e illusorio controllo adulto, mentre è invece abbandonato, solo in un mondo sconosciuto e pericoloso.

Engagement e dopamina

Jamie ha tredici anni, un’età in cui il cervello è in piena trasformazione, le aree deputate alla ricerca di stimoli e gratificazione sono iperattive, mentre i sistemi di autocontrollo, regolazione emotiva e giudizio sono ancora in evoluzione. É in un delicato periodo di squilibrio, comune ad ogni adolescente di ogni epoca, ma che oggi, nell’era dell’iperconnessione, genera un contesto neurochimicamente esplosivo. I social media, progettati per massimizzare l’engagement e basati su principi economici legati alla monetizzazione dell’attenzione, sfruttano questa vulnerabilità: ogni like, condivisione o commento positivo sui social, rilascia nel cervello dell’adolescente dopamina, il neurotrasmettitore della ricompensa, lo stesso coinvolto nelle dipendenze da sostanze come alcol, nicotina e cocaina. L’attivazione ripetuta e prolungata del circuito dopaminergico genera un senso di piacere che rinforza il comportamento, spingendo l’adolescente a cercare nuove interazioni, nuovi stimoli, nuovi premi digitali: più si riceve e più si desidera ricevere. La letteratura neuroscientifica recente mette in luce come i meccanismi cerebrali coinvolti nella dipendenza digitale presentino un’analogia spiazzante con quelli legati alla tossicodipendenza e come l’esposizione prolungata alla gratificazione istantanea possa generare sintomi di astinenza come ansia, insonnia, irritabilità, ritiro sociale. In un recente e famosissimo studio americano, Jonathan Haidt segnala che il tasso di ansia e depressione tra gli adolescenti americani è in vertiginoso aumento (più del 50% negli ultimi venti anni); un trend che riguarda anche Europa, Canada e Australia e che trova origine in una rivoluzione silenziosa e profonda: meno relazioni di persona, più tempo online, maggiore esposizione a contenuti non filtrati e spersonalizzanti. In breve, l’esperienza di essere lasciati soli in balia di un mondo digitale senza protezione e confini.

Sappiamo davvero chi sono i nostri figli?

Adolescence è una serie utile perché non si limita a denunciare, ma ci mette con le spalle al muro, costringendoci a rimanere all’interno delle sequenze, una dopo l’altra, per vivere il mondo tossico degli ambienti online che rimangono quasi impercettibili, ma onnipresenti, fissi sullo sfondo. La domanda che il regista ci pone è semplice quanto destabilizzante: “Sappiamo davvero chi sono i nostri figli?”. Quelli che non danno problemi, che attraversano l’adolescenza senza conflitti, senza clamori, spesso senza parole? Il contesto in cui Jamie si muove, una periferia inglese apparentemente “normale”, in realtà attraversata da subculture di una violenza strisciante, è una cornice efficace e inquietante che riflette ben più ampie dinamiche  familiari. Conosciamo davvero i contesti che i nostri figli abitano quotidianamente per molto più tempo di quello che trascorrono con noi? Ne conosciamo i linguaggi, i codici, i possibili rischi? Sappiamo restare accanto a loro, senza abbandonarli, soli, in un mondo virtuale travestito da luogo protetto?

Il crollo silenzioso della comunicazione intergenerazionale

Il senso più vero di Adolescence sta nell’illusione di sapere come funzionano gli adolescenti oggi, mentre nella realtà assistiamo impotenti al crollo silenzioso della comunicazione intergenerazionale, al venir meno del ruolo adulto. Ed è forse questo il punto più alto di una serie che non offre spiegazioni e ricette, ma scardina l’idea che la sola presenza fisica sia prossimità, che la routine familiare sia relazione.  Che ci schiaccia contro ciò che non vogliamo vedere, senza sconti, smontando quell’illusione rassicurante, spingendoci a cambiare traiettoria, senza lasciarci scampo e vie di fuga. Perché nell’assenza, nel vuoto lasciato dagli adulti, nessuno si può salvare.  

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