Mohammad Karimi, in Italia dal 2008, mediatore della Cooperativa Il Melograno e studente di scienze politiche e relazioni internazionali
Forse alcuni di noi si ricordano ancora le immagini dell’aeroporto di Kabul dell’agosto 2021 in cui centinaia di persone tentavano di fuggire per mettere in salvo la propria vita, ora sono passati tre anni da quella tragedia che oggi è diventata una grave crisi umanitaria.
In questi tre anni, l’Afghanistan è caduto nell’oblio della comunità internazionale e dell’Unione Europea lasciando libero il regime talebano di consolidare il proprio potere e il prezzo più caro lo pagano le donne afghane che in questo momento subiscono una doppia discriminazione.
Oltre alla crisi dei diritti umani provocati dei talebani, c’è anche una crisi umanitaria perché l’economia del paese è a pezzi, i prezzi dei generi alimentari e di altri beni di prima necessità sono aumentati facendo dall’Afghanistan un paese ancora più povero di prima in cui la metà della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari. La maggior parte degli aiuti destinati al popolo afghano spesso finiscono nelle mani dei talebani.
Le donne e i diritti negati
Le conseguenze di tutto ciò e il silenzio della comunità internazionale rendono i talebani ancora più audaci e fa aggravare soprattutto la situazione delle categorie più vulnerabili, come le donne e i bambini. In Afghanistan le donne sono di fatto escluse dalla vita pubblica e i loro diritti vengono sistematicamente negati. Sono stati promulgati nuovi divieti, come l’esclusione dalla scuola, dal lavoro, dal viaggiare da sole e a questo si aggiunge una nuova legge sulla “propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” composta da 35 articoli, una legge barbara che rende invisibili le donne afghane.
La nuova legge del Ministero per “la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio” entrata in vigore lo scorso 21 agosto tra le altre cose non solo ha imposto uno stretto codice di abbigliamento – imponendo loro di non lasciare scoperta nessuna parte del proprio corpo o del proprio volto – ma si è arrivati addirittura a vietare la voce stessa delle donne. È vietato per loro cantare, recitare, leggere in pubblico. L’unico luogo dove una donna afgana può far sentire la propria ‘voce’ è l’abitazione privata. È fatto inoltre divieto alle donne di guardare direttamente uomini che non siano loro parenti o loro familiari, e viceversa.
In un paese multietnico come l’Afghanistan, queste leggi saranno anche nuove armi nelle mani del regime per legittimare la persecuzione delle altre etnie di fede diversa, eliminando ogni forma di diversità e uniformando il tessuto sociale del paese sotto una interpretazione della sharia che è affatto condivisa da molte altre etnie.
L’abbandono dei rifugiati afghani
Un’altra conseguenza del regime talebano è l’aumento del numero dei profughi che secondo l’ultimo report di global trends del 2023 hanno raggiunto il livello critico di 6,4 milioni di persone in fuga. Purtroppo, la solidarietà che al momento della caduta di Kabul nell’agosto 2021 in tanti avevamo sentito per gli afghani e le donne afghane oggi sembra del tutto dimenticata.
La maggior parte dei profughi tra cui donne, bambini e attivisti dei diritti umani, si trovano nei paesi limitrofi dove vivono in condizioni precarie a rischio di rimpatri e vessazioni. Altri sono bloccati nei centri profughi greci, percorrono le strade e i boschi della rotta balcanica inseguiti dalla polizia e dalle manganellate subendo torture e trattamenti inumani e degradanti, mettendo la loro vita in pericolo per arrivare in Europa, e quando entrano in Italia faticano a presentare la domanda di asilo e spesso devono dormire per strada.
M. Nazari, che ora si trova fuori dell’Afghanistan, faceva parte della generazione che dopo la caduta del regime di talebani nel 2001, come molte altre ragazze ha lottato per il diritto all’istruzione e al lavoro, sognava un paese libero. Ma da quando i talebani hanno ripreso il potere nell’agosto del 2021, mi scriveva di come tutte le conquiste fossero state cancellate. Lei, che voleva diventare un medico, mi scriveva che i talebani hanno seppellito ogni desiderio facendo diventare dell’Afghanistan un cimitero di massa senza un futuro. Tutti i diritti sono stati spazzati via e ora la gente vive in una prigione a cielo aperto dove anche solo il colore di un vestito viene imposto.
Promuovere i corridoi umanitari
L’Italia, che al momento della caduta di Kabul è stata molto vicino agli afghani, con la politica adottata del nuovo governo ha lentamente accantonato la questione afghana. Chi è riuscito ad arrivare in Italia in questi anni ha dovuto affrontare tante difficoltà causate dal sistema di accoglienza vigente: molti non sono riusciti a trovare un impiego adeguato a causa del non riconoscimento del loro titolo di studio, chi ha concluso l’ultimo anno scolastico in Afghanistan e ora si trova in Italia non ha la possibilità o fa fatica a proseguire i suoi percorsi di studi perché i talebani non rilasciano alcun diploma.
F. Shazia, una ragazza afghana che vive quasi da due anni in Italia nella provincia di Trento che ho conosciuto durante la mia attività di mediatore, mi racconta di come è stata tra i fortunati per essere riuscita a raggiungere l’Italia con la sua famiglia, ha scoperto che non può iscriversi all’università perché i talebani non rilasciano i diplomi a coloro che hanno concluso l’ultimo anno di scuola superiore.
Come lei, ci sono tanti altri che avevano concluso il loro percorso di studio e ricoprivano un ruolo professionale importante, ma qui in Italia nulla gli viene riconosciuto, bloccato da una cieca burocrazia.
Per queste ragione chiediamo al governo italiano in primis di non instaurare un qualsiasi rapporto con il regime di Kabul che porti al riconoscimento dei talebani e ad attivarsi sul piano internazionale per difendere i diritti delle donne e delle minoranze presenti in Afghanistan, inoltre di aprire nuovi corridoi umanitari per i rifugiati afghani che si trovano in condizioni di estrema fragilità e pericolo e che rischiano ogni giorno la loro vita in Afghanistan.
Chiediamo di poter di vivere in un posto sicuro e in maniera dignitosa.