Dal lusso al bello: un’urbanistica possibile tra vocazione popolare e nuove tensioni

Lug 29, 2025 | Attualità

di Dario Colombo

Bello e lusso. Estetica e cosmetica. Dimensione pubblica e rigenerazione urbana. Binomi che sembrano conciliabili e che invece rivelano tensioni mai risolte. Tornare a guardare e ascoltare queste frizioni, lasciarle agire e farle diventare progetto: è qui che Milano può ritrovare la propria tradizione più viva. Innovare e recuperare insieme, come ha sempre fatto, ripensando la sua vocazione popolare – quella dei casciavit, del palo dell’Ortica e del Cerruti Gino del bar del Giambellino – non come contorno buono per dipingere i muri o titolare giardinetti pubblici, ma come radice per una città che si aggiorna senza smarrirsi.

Milano allo specchio

Milano da anni si osserva come in uno specchio. Si racconta con costanza: città laboratorio, città modello, città stato. La narrazione precede e spesso sostituisce l’esperienza: si annunciano progetti prima ancora di inaugurarli, si diffondono immagini prima di viverle. L’urbanistica assume un carattere cosmetico: costruire diventa un gesto di rappresentazione oltre che di abitazione. Grattacieli che si trasformano in marchi, piazze pensate come scenografie, parchi presenti nei render ancor prima che nel terreno: l’immaginario visivo appare compatto, brillante, coerente. Proprio questa compattezza produce un effetto silenzioso: ciò che non entra nell’immagine scivola in un racconto separato, affidato a un vocabolario che lo colloca tra i “servizi” o il “welfare”.

I luoghi e le persone diventano oggetto di gestione, non parte del progetto complessivo. Lo slittamento ingloba il dissenso: le criticità sociali vengono trattate come eccezioni da amministrare, le domande di diritto come bisogni da assistere. In questo modo la città può continuare a presentarsi come inclusiva senza mettere in discussione la struttura che produce le disuguaglianze.

Il lusso come estetica dell’esclusione

A Milano il lusso non è soltanto una categoria economica. È un principio estetizzante: decide cosa mostrare, cosa raccontare e come farlo sembrare accessibile. Porta Nuova, CityLife, Bosco Verticale funzionano come icone di questo immaginario: non semplici architetture, ma marchi narrativi che definiscono la città contemporanea.

Il paradosso si coglie confrontando questa logica con quella dei simboli storici. Il Duomo, per esempio, non si limita a imporsi come immagine: lo si attraversa, lo si percorre, lo si vive. Ci si arrampica sulle terrazze, si cammina tra le guglie. Il Bosco Verticale, al contrario, si guarda dal basso. È una veduta che non si abita, se non come privilegio di pochi. Come gli yacht ormeggiati a Porto Cervo o le ville adagiate a San Bonifacio: la distanza sociale si presenta come vicinanza visiva, e proprio questa illusione la rende più netta.

Il racconto urbanistico compie qui la sua mossa più abile: trasforma l’esclusione in promessa di condivisione. Tutti possono ammirare, tutti possono fotografare, tutti possono sentirsi parte del modello; nessuno, se non pochi, può viverlo davvero.

Il bello come condizione abitabile

Milano oggi vive una tensione che non si scioglie. Il traffico continua a saturare le strade – il lusso pretende accesso diretto – e nello stesso tempo si moltiplicano pedonalizzazioni, marciapiedi larghi, giardini restituiti. In questa frizione si genera un’ambivalenza vitalistica: spazi che sembrano nati per l’immagine, ma che vengono abitati con una forza che eccede ogni progetto.

Piazza Sant’Agostino dopo la pedonalizzazione (Foto Urbanfile)

Quando la pedonalizzazione diventa stabile e smette di essere intervento tattico, i luoghi cambiano natura. Le aree gioco si riempiono, i cortili scolastici aperti diventano piazze, i piccoli parchi si popolano di incontri imprevisti. Piazze come Sant’Agostino o Wagner funzionano oggi come nodi di prossimità, giardini storici come la Guastalla si riprendono la vita quotidiana con una continuità silenziosa. Anche nei quartieri popolari, minimi interventi su strade e marciapiedi hanno prodotto spazi di sosta e di scambio: luoghi attraversati da conflitti e relazioni, non solo da flussi.

C’è un’energia che percorre questi spazi: una tensione verticale e orizzontale insieme, come nelle visioni urbane del secolo scorso, dove slancio e corpo convivevano senza mai pacificarsi. È un movimento che non promette armonia ma possibilità: il bello che emerge non dall’icona, ma dall’uso.

Un racconto diverso: popolare come apertura

Popolare è parola che a Milano ha cambiato pelle più volte. Ha indicato case di edilizia pubblica, quartieri operai, persino un certo modo di raccontare la vita quotidiana, dalle canzoni alle storie di cortile. Oggi rischia di essere parola consumata: usata per marketing, trasformata in brand di autenticità, ridotta a sfondo di murales che celebrano un’umanità senza voce. Riscoprirla significa liberarla dalla nostalgia e dall’estetica del folklore.

Il popolare come apertura non è elogio della miseria né esaltazione di un’idealizzata semplicità. È possibilità di spazi in cui la convivenza non sia selettiva, nei quali prossimità e differenza si misurino senza filtri edulcoranti. Cortili che tornano a respirare, condomini che si riattivano come curtis contemporanee: luoghi di scambio e di conflitto, quotidiani e concreti, capaci di produrre senso senza bisogno di scenografie.

Il conflitto, per essere fecondo, va riconosciuto, agito, ricondotto. Giammai compresso e ridotto a silenzio forzato. Il linguaggio dell’urbanistica cosmetica, invece, neutralizza: assorbe tensioni e le restituisce come estetica pacificata. Piazze “condivise”, murales celebrativi, narrazioni di “rigenerazione”: tutto appare già risolto, come se bastasse raccontare l’inclusione per ottenerla.

Un racconto diverso non si limita a evocare spazi: riporta al centro le relazioni, riconosce i conflitti, apre possibilità che la retorica dominante non contempla. In questa prospettiva, popolare può tornare ad essere pratica viva di convivenza, capace di ridisegnare la città a partire dai suoi gesti quotidiani.

Quand Milan g’aveva il cœur in man

Se si può usare, e abusare, dell’inglese – dagli hub ai concept store – parlare in dialetto non rende meno internazionali. Alcune parole milanesi, ruvide e ironiche, sanno dire la città con una precisione intraducibile. Portano un profumo di cotoletta: olio e burro che friggono insieme, miscela che genera sapori nuovi e riconoscibili.

Il cœur in man appartiene a una Milano concreta, fatta di gesti più che di proclami. È l’operaio che apre il cortile al vicino, l’attrice che porta il teatro nei capannoni, il cantautore che racconta l’amore tra una fermata del tram e una fabbrica dismessa. Gaber, Jannacci, Fo e Rame hanno narrato la città con ironia e pietà intrecciate, senza mascherarne i conflitti e senza indulgere alla malinconia.

Oggi quelle parole compaiono sui muri e nei tram come frammenti visivi. Possono diventare decorazione, ma indicano anche una ricerca: trovare linguaggi capaci di raccontare la città con verità e misura. In questo spazio di risonanza si apre la possibilità di un vocabolario popolare rinnovato, capace di contaminare le forme urbane senza sterilizzarle.

Il cuore in mano diventa gesto progettuale: riportare la convivenza al centro del disegno urbano, fare spazio a conflitti e relazioni come parte della città futura. È questa vitalità che può rendere viva la sua eredità: non cartolina, ma possibilità di abitare diversamente.

Dall’ornato al bello condiviso

La Commissione di pubblico ornato di inizio Ottocento aveva introdotto a Milano un principio chiaro: la città deve essere leggibile. L’ornato non era decorazione, ma grammatica condivisa di rapporti, proporzioni, allineamenti. Questa idea di bello come ordine pubblico riaffiora, più di un secolo dopo, nella stagione di ricostruzione e crescita che accompagna il secondo dopoguerra, tra ricostruzione e pressione urbana del boom economico.

Tre esperienze, diverse per scala e linguaggio, sono esemplari di quella tensione. QT8, progettato tra 1946 e 1954 da Piero Bottoni per l’Ottava Triennale, sperimenta un quartiere-giardino in cui edilizia popolare, verde e servizi si intrecciano in un disegno unitario. Il Quartiere Feltre, costruito tra 1957 e 1961 nell’ambito del piano INA‑Casa da architetti, tra gli altri, come Gino Pollini, integra spazi verdi e funzioni collettive, producendo una trama urbana che unisce abitazioni, scuole e commercio minuto.

Infine, il quadrilatero tra via San Paolino e via San Vigilio (Quartiere Sant’Ambrogio), nel quadrante sud della città. Qui, negli anni Sessanta, Arrigo Arrighetti – architetto comunale – progetta un complesso residenziale che esprime in modo esemplare la vocazione pubblica dell’abitare. In quest’ultimo caso la qualità emerge dai dettagli: tagli di appartamenti generosi, aperture che rendono gli ambienti luminosi, spazi aperti pensati per la relazione. Dalle quote più alte, ancora oggi, lo sguardo abbraccia l’orizzonte cittadino: dal profilo del Duomo fino alle torri contemporanee. Materiali semplici, proporzioni misurate, attenzione alla vivibilità quotidiana: è una linea di ricerca che costruisce il lessico di una possibile bellezza popolare, da vivere e non solo da ammirare.

Tempo di ri-prendere posto

I tre interventi architettonici sono esplicativi di una stagione di rinascita e innovazione urbana: veri palinsesti di una città capace di rigenerare la propria dimensione pubblica. Un lascito da non disperdere, piuttosto da recuperare come occasione di progetto. Oggi la nostra cooperativa entra in questo solco, diventando attrice di un processo di riconnotazione e di risignificazione. ll lessico dell’urbanistica contemporanea è pieno di parole che suonano promettenti: rigenerazione, housing sociale, hub, verde diffuso. Espressioni che nascono come aperture ma rischiano, nell’uso corrente, di svuotarsi. Ri-prendere posto significa anche riaprire queste parole, restituire loro spessore e funzione pubblica.

Dai piani alti di via San Paolino, quartiere popolare progettato da Arrigo Arrighetti, ancora oggi lo sguardo abbraccia Milano

PrendiPosto si colloca in questa tensione. È il progetto con cui abbiamo partecipato al bando comunale Casa ai lavoratori, promosso dal Comune di Milano per restituire funzione abitativa a un patrimonio pubblico sottoutilizzato. Interviene su case di proprietà comunale, tra cui quelle del Quartiere Sant’Ambrogio: appartamenti pensati per la vita quotidiana, con spazi luminosi e cortili di relazione, oggi bisognosi di una nuova destinazione sociale.

Nell’idea progettuale e nella sua declinazione operativa, PrendiPosto riconnette i fili lasciati sospesi: riprende la vocazione popolare di quei quartieri e la rilancia nel presente, provando a contribuire alla ricerca di una via diversa – e al contempo possibile – per accedere all’urbanistica municipale. Non una nostalgia, ma un atto di continuità critica: un altro modo, in fondo antico ma oggi radicalmente innovativo, di rigenerare l’urbano.

Questa possibilità nasce da una scelta politica. La politica del Comune di Milano ha tracciato il varco che rende praticabile questo percorso, dentro un’ambivalente tensione vitalistica che attraversa approcci e pensieri: un’energia che può generare tanto narrazioni cosmetiche quanto aperture concrete. È in questo spazio che PrendiPosto tenta di collocarsi: dare sostanza alla promessa, evitando che resti racconto.

Qui la differenza è duplice. Il progetto sociale è strumento di emancipazione, non intervento assistenziale: la casa non è premio o soccorso, ma piattaforma per vivere la città, sostenere progetti di vita, consolidare percorsi di lavoro. L’azione non si rivolge a marginalità estreme, ma al tessuto ordinario: famiglie, giovani, lavoratori e lavoratrici che rischiano l’espulsione silenziosa dalla città per i costi abitativi. In questo senso, la funzione sociale non è accessoria: diventa nodo strutturale di un sistema urbano che riconosce la casa come diritto e come infrastruttura di convivenza.

Abitare l’apertura significa questo: ricucire la memoria di una Milano che seppe pensare il bello come bene comune con la sfida di oggi, dove il bello deve tornare abitabile e non solo ammirabile. PrendiPosto è un passo in questa direzione: un gesto politico e concreto, che rilancia il discorso sulla città possibile.

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