
Daniele De Luca, giornalista professionista, milanista. Dopo una lunga esperienza a Radio Popolare Milano, AGR, CNRMedia e altre collaborazioni da alcuni anni si occupa principalmente di comunicazione istituzionale e ufficio stampa.
La cronaca nera è diventata il grimaldello per scardinare il sistema giudiziario
“Tutto questo parlare di macchioline di sangue e impronte digitali, diceva Carlotto, finisce sempre per minare la fiducia nello stato di diritto e per aumentare la voglia di repressione”. Così scriveva nel 2007 lo scrittore Massimo Carlotto, proprio a proposito dell’omicidio di Chiara Poggi. Perché già allora la vicenda aveva attirato l’attenzione spasmodica e morbosa dell’opinione pubblica e, se proprio ci tocca entrare per pochi istanti nel merito della vicenda, come allora il processo a Stasi fu indiziario la stessa cosa accade oggi per Sempio.
Del movente nessuno parla, esistono solo possibili “prove”.
Il fatto è che, 18 anni dopo la morte violenta di Chiara Poggi, qualche elemento nuovo in effetti c’è. Il pm Fabio Napoleone, che ha in mano il fascicolo e guida un pool con altri tre magistrati, ha la fama di investigatore serio e rigoroso: all’inizio del millennio ha seguito il caso Telecom-Sismi, che portò alla luce una delle tante bande di spioni attive nel paese, raccoglitori di dossier illegali a metà tra la criminalità comune e i servizi segreti deviati. Adesso pensa che il caso di Garlasco possa riaprirsi: c’è del dna sotto le unghie della vittima – un vecchio reperto rivalutato alla luce di una consulenza tecnica – che non sarebbe di Stasi. Forse è di Andrea Sempio, amico del fratello di Poggi. Potrebbe essere lui il secondo uomo, anche se non risulta avesse un grande rapporto con Stasi. Ed è difficile organizzare un omicidio con qualcuno che non conosci. Poi c’è una testimonianza, che all’epoca delle prime indagini venne ritrattata, che parlava di una figura femminile in bicicletta nei pressi di casa Poggi con un pesante oggetto in mano. Pochi giorni fa, dragando un canale sarebbero emersi degli attrezzi da lavoro, tra i quali pare anche un martello. Chissà se c’entra davvero qualcosa, ma intanto il dettaglio fa rumore nel rinato teatro mediatico attorno al caso Poggi.
Perché la cronaca nera non muore mai. E nell’epoca degli algoritmi social, la cronaca nera è la manna. Tutti, ciascuno nel proprio feed, diventano giudici. E tutti, nella propria bolla, hanno un solo vero nemico: la giustizia italiana.
Ora è davvero sintomatico notare come certi meccanismi mediatici assumano contorni di armi di distrazione di massa. È inutile infatti far notare che circa il 40% degli attuali detenuti nelle carceri italiane sono in attesa di giudizio e che una buona parte di loro saranno poi assolti. Significa che in questo momento, a spanne, ci sono 15/20mila innocenti in cella.
A nessuno viene in mente di sollevare la questione, dei detenuti non frega niente a nessuno. Di Stasi che, forse innocente, si è già fatto fin troppi anni di galera invece interessa a tutti. Sarà perché è un bianco italiano, un borghese abbastanza rassicurante e mansueto. Non è certo “nero sporco e cattivo”.
Sappiamo come funziona, siamo circondati: podcast come se piovesse, saggi autopubblicati, turismo dell’orrore, investigatori dilettanti, criminologi ospiti fissi in televisione, sedicenti esperti di scene del crimine, plastici, marescialli che si accusano l’un l’altro. Un circo. Alla disperata ricerca di visibilità.
Innocentisti, colpevolisti. Ma tutti d’accordo su una cosa: “la giustizia italiana fa schifo”. Ben venga allora la separazione delle carriere, ben venga il fatto che il potere esecutivo controlli direttamente quello giudiziario così da poter “punire” al momento giusto chi ha sbagliato. Quelli delle Iene, ad esempio, avevano già provato a riscrivere la verità sulla strage di Erba, episodio atroce avvenuto in provincia di Como nel 2006. Alla fine, però, un giudice ha dato torto al pm che avrebbe voluto riaprire le indagini. La Cassazione, di recente, ha motivato la decisione di non far partire una nuova inchiesta perché quella vecchia poteva già contare su «prove solide» e «minuziosi riscontri».
Su Garlasco, però, qualche domanda che attende risposte convincenti ancora c’è. Manca appunto l’elemento fondamentale del movente. Il che presupporrebbe il fatto che in assenza di un colpevole, nessuno sarebbe dovuto andare in carcere. Ma noi non cerchiamo l’innocente, noi vogliamo il colpevole.
Altro elemento interessante da un punto di vista semeiotico è il fatto che nessuno definisca l’assassino di Chiara Poggi un femminicidio. Perché? Forse perché nel 2007 la parola non era ancora in uso? Va bene, ma oggi sì. E perché allora non parlare di femminicidio? Perché forse è stata uccisa per altri motivi? Quali? Non importa, non interessa. La parola alla scienza. E siamo così sicuri che sia la scienza da sola a poter stabilire la colpevolezza di un uomo? Non è successa la stessa identica cosa per chi oggi pensiamo sia innocente, condannato per qualche “indizio scientifico” poi dimostratosi, probabilmente, insufficiente?
Insomma, a che cosa serve tutto questo rumore su Garlasco?
Il 19 marzo 2025, dopo l’iscrizione di Andrea Sempio nel registro degli indagati, la parola “Garlasco” si piazza da sola fra i «Temi caldi» del Corriere — scelta presa da un ranking automatico, non da un caporedattore (cache Corriere della sera, 19 marzo 2025). Il 22 maggio l’hashtag #Garlasco resta 21 ore nella top 10 di X (GetDayTrends, 22 maggio 2025) e innesca 23 notifiche push di SkyTg24 in tre giorni.
Il criterio di successo non è più il clic visibile bensì la retention: quanto a lungo restiamo sul pezzo. TgCom24 produce clip verticali di 90 secondi (“Spunta l’sms che incastrerebbe Sempio”) con chat live; i commenti più veementi determinano l’angolo del video successivo (intervista al caporedattore digital, 15 maggio 2025). Su TikTok un montaggio d’archivio del Corriere raccoglie 17.300 like in 24 ore, cifra verificata dal backend redazionale. L’IA registra che #Garlasco passa da 1.000 a 20.000 tweet in 27 minuti, cinque volte più rapido del picco #Cogne del 2012.
L’utente non è più investigatore, ma sensore di umori: i suoi like auto-alimentano la visibilità di ciò che conferma i suoi pre-giudizi. Nasce la filiera epistemica personalizzata: feed colpevolista per chi ha cliccato contenuti colpevolisti, garantista per i garantisti — due mondi informativi paralleli che non si parlano.
Il processo reale rincorre il processo percepito: lo ricorda il penalista Ennio Amodio, secondo cui le procure «raccontano minuto per minuto per non perdere la leadership cognitiva» (Il Dubbio, 21 maggio 2025). Il rischio dominante diventa il doxxing: indirizzi e numeri privati dei familiari di Sempio compaiono nelle reply “invisibili” agli strumenti di monitoraggio e vengono rilanciati prima di poter essere rimossi.
Dalla fiducia nell’esperto alla fede nell’algoritmo
Se l’alibi digitale di Stasi inaugurò il culto della prova tecnica, l’algoritmo di trending oggi è percepito come oracolo: “se è in alto dev’essere vero”. La gnoseologia popolare si affida alla classifica, non al contraddittorio. Stasi, condannato, resta materia di cold-case e click-bait; Sempio, solo indagato, è già icona di gallerie “mostri celebri”. L’etichetta giudiziaria non dipende più da una sentenza, ma dalla persistenza algoritmica.
Il delitto di Garlasco mostra che il motore di raccomandazione è un co-autore della realtà: nell’era dei clic ha incoraggiato la dissezione compulsiva, nell’era dei feed produce verità differenziate per ogni utente. Se la cronaca nera è il nostro rito collettivo di educazione emotiva, esso avviene ora dentro cruscotti che nessuno legge: dashboard di retention, modelli linguistici che ottimizzano titoli, filtri che decidono chi vede cosa.
La giustizia oggi è un algoritmo che obbedisce alle nostre pulsioni. Arriveremo ad eleggere i giudici e gli sceriffi?