
Dario Colombo, Direttore de Il Melograno, nel 1999 fu tra i soci fondatori e ha svolto per molti anni il ruolo di Presidente. Laureato in Lettere moderne, si occupa della progettazione e dello sviluppo delle politiche sociali della cooperativa.
Il primo aprile 2025 non è una data qualsiasi. È il giorno in cui gli albi degli educatori professionali socio-pedagogici e dei pedagogisti sono diventati realtà.
Una data, una soglia
Per alcuni è una conquista, per altri una formalità, per altri ancora uno scherzo, l’antipatico pesce del 2025. Ma è soprattutto una soglia. Un punto che costringe a prendere posizione. A dichiararsi. A fare i conti con ciò che siamo diventati — come operatori, come servizi, come sistema.
Gli albi sono una fotografia. E come tutte le fotografie sono parziali, sfocate, a tratti sovraesposte. Dicono qualcosa, ma non tutto. Riconoscono formalmente una professione – anzi due – che, nella pratica, sono ancora indefinite, fragili, attraversate da profonde contraddizioni.
La genealogia di ordine e albi: tra rivendicazione e delega
Gli albi vedono la luce dopo decenni di rivendicazioni, appelli, provvedimenti a metà. Sono il nuovo passaggio di un processo lungo, nel quale la richiesta di riconoscimento ha assunto, nel tempo, molteplici forme: contrattuali, formative, normative, culturali. Tale richiesta ha reso visibile un lavoro spesso relegato ai margini dell’elaborazione istituzionale, non riuscendo tuttavia ad evitare un effetto collaterale: la crescente delega della definizione della professionalità educativa agli apparati normativi. Una delega che ha prodotto esiti concreti: regolamenti, linee guida, codificazioni di accesso, ordinamenti formativi, ora un ordine e due albi. Ma che, nel tempo, ha sottratto spazio alla riflessione pedagogica, alla differenziazione dei contesti, alla pluralità delle pratiche: è come avesse istituzionalizzato una domanda, senza elaborarne fino in fondo il senso.
Due nuovi albi nella geografia ordinistica delle professioni
Non è immediato orientarsi nella geografia disegnata da ordini e albi: la norma ha istituito l’ordine delle professioni pedagogiche ed educative e dal primo aprile sono operativi i due albi degli educatori e dei pedagogisti. Un ordine e due albi quindi, invitati a trovare uno spazio in un ecosistema affollato, nel quale professioni educative e di cura si sfiorano, si intrecciano, arrivando financo a confondersi: il nuovo ordinamento non chiarisce, limitandosi a ridisegnare i confini di un territorio in cui erano già presenti gli educatori professionali sanitari (albo delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione, ordine dei TSRM-PSTRP) e in cui continueranno ad essere operativi elenchi regionali, registri interni, sistemi di accreditamento che, a vario titolo, formalizzano la presenza di educatori in servizi educativi, scolastici e socio-assistenziali.
La scelta su come tracciare i nuovi confini è, ad avviso di chi scrive, assai discutibile: l’istituzione di due albi introduce un doppio livello di accesso e di legittimazione, con effetti che non si possono ritenere solo classificatori. Non è questione di nomenclature: si tratta di modelli di sapere e forme di esercizio della funzione. In questo quadro, ordini e albi non sono strumenti neutri: stabiliscono appartenenze, consolidano gerarchie, producono effetti operativi; non registrano lo stato delle cose: lo riscrivono.
Il contesto rimosso: la crisi delle professioni educative
Concentrandoci sul nuovo ordine, la definizione di educatore come “figura intermedia” non spiega in che modo si collochi questa presunta intermediazione tra processi, soggetti e saperi, rischiando di ridurre una professione autonoma a segmento operativo, pensato per eseguire, tradurre, agire in spazi delimitati da altri. Non aiuta a rafforzare la responsabilità educativa, né a valorizzarne la portata sociale e pedagogica.
Anche la figura del pedagogista, nel passaggio ordinistico, sembra perdere profondità. Non più nodo di ricerca e tensione, ma riferimento apicale, posizionato su un livello superiore perché abilitato da un titolo magistrale. Ma i pedagogisti, nel tempo, sono stati — prima e soprattutto — intellettuali irrequieti, figure difficili e sfuggenti di fronte alle definizioni, abitanti al confine tra sapere e prassi, tra teoria e politica. Classificarli rischia di ridurre il loro ruolo a funzione tecnica, sottraendo profondità a una postura che è, per tradizione, interrogativa e aperta. La forma rigida che assume la distinzione tra educatore e pedagogista non restituisce la profondità delle funzioni: parla di prestazioni e di compiti, sfumando fin troppo gli ambiti di responsabilità educativa, sociale e pedagogica.
Invero, da anni, si assiste a una crisi profonda delle professioni educative: di accesso, di formazione, di tenuta retributiva. La retorica del riconoscimento rischia di oscurare una crisi strutturale, rendendola invisibile proprio mentre la si dovrebbe affrontare, lasciando sullo sfondo l’ineludibile nodo di una professione schiacciata tra il progressivo smarrimento dei legami con i contesti educativi e il permanere di livelli retributivi insufficienti. L’istituzione dell’ordine e l’entrata in funzione degli albi non affrontano le ragioni della crisi, non spostano di una virgola la questione, rischiano di suonare come un vuoto atto formale, la consacrazione normativa di una marginalità già data.
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Lombardia, laboratorio permanente di contraddizioni
Una marginalità profonda, che si può cogliere osservando dall’interno il contesto lombardo, sorprendente e sempre fervido laboratorio di contraddizioni. Facciamo un piccolo passo indietro e torniamo al 2022, l’anno in cui Regione Lombardia introdusse una deroga ampia sui titoli di studio necessari per lavorare nei servizi educativi. Una scelta sostenuta da gran parte del Terzo Settore, motivata dall’urgenza, ma non neutra nelle sue conseguenze. Dopo pochi anni quell’infelice orientamento ha prodotto una normalizzazione della deroga, spacciandola per soluzione, assumendo come strutturale una misura emergenziale, preferendo, come orizzonte di sistema, il livellamento verso il basso. La posizione assunta allora dalla Cooperativa Il Melograno fu netta: provammo a sostenere che si andava nella direzione sbagliata, che si contribuiva a indebolire una professione e ad accettare un impoverimento della qualità dell’offerta, una vera autorete, segnata con narrazione superficiale, inconsapevole e sicura, in linea con questi nostri tempi. Si è accettata, e anzi addirittura promossa, la logica dei compromessi al ribasso, confondendo il dialogo con la negoziazione a qualunque costo. E così si è smarrita la possibilità di aprire un dibattito pubblico. Eppure la Lombardia, per dimensioni e pluralità di attori, avrebbe potuto farlo: un confronto aperto e trasparente, che mettesse al centro il senso delle professioni educative, le responsabilità degli enti formativi, le condizioni materiali del lavoro educativo. Non una difesa d’ufficio del sistema, ma una sua messa in discussione, per ricomporne la frattura tra racconto e realtà.
I paradossi in atto
La frattura tra racconto e realtà è uno dei paradossi, altri si possono facilmente rintracciare all’interno di questa vicenda, proviamo ad elencarne alcuni.
Il paradosso più evidente è che proprio quando gli albi arrivano a garantire un titolo, il titolo rischia di perdere contenuto. Le lauree triennali si sono moltiplicate, le offerte formative sono diventate più accessibili ma anche più evanescenti, i confini disciplinari si sono allargati fino a smarrirsi. Formarsi non significa più, necessariamente, pensare; acquisire il titolo non comporta più, automaticamente, un’elaborazione di senso. Il riconoscimento arriva quando la riconoscibilità si assottiglia.
C’è poi un secondo paradosso: gli albi formalizzano una professione che continua, nella prassi quotidiana, a essere svalutata. I servizi cercano figure “che sappiano fare”, ma non sempre le mettono in condizione di agire con responsabilità: si chiede flessibilità, ma si offre precarietà; si richiede adesione, ma si moltiplicano i vincoli. Il risultato è una professione invocata come cruciale e trattata come residuale.
Il terzo paradosso è forse il più profondo: il riconoscimento ordinistico, lungi dal consolidare l’identità educativa, rischia di irrigidirla. Categorizzare significa anche delimitare, disattivare quella vocazione al confine, all’attraversamento, all’intervento situato che ha sempre caratterizzato l’azione educativa. L’educatore rischia di essere definito più per quello che non può fare che per ciò che può costruire. Il pedagogista rischia di diventare un esperto fra gli esperti, privo di parola pubblica, chiuso in un sapere di nicchia. Così, mentre si pretende di garantire identità, si corre il rischio di smarrire funzione, orizzonte e profondità. Il riconoscimento, se non è accompagnato da una riflessione culturale, formativa e politica, può produrre effetti opposti a quelli dichiarati. E trasformarsi in uno specchio deformante: restituisce un’immagine, ma la restituisce muta.
Pretendere di più, non solo stare dentro
Stare dentro, rispettare i requisiti, iscriversi: tutto questo può essere necessario, ma non può bastare. L’adesione formale non garantisce qualità, né visione. Non costruisce da sola la dignità della professione, né la forza dei servizi.
L’adesione passiva legittima lo status quo. Il rischio è quello di una cittadinanza subordinata: accettare ciò che viene dato, senza più rivendicare ciò che sarebbe necessario. Una professione educativa che si accontenta del riconoscimento è una professione che abdica alla sua funzione trasformativa. Non è solo un problema di titoli: è un problema di immaginario e di tensione politica.
Pretendere di più significa aprire un fronte di pensiero. Non per distinguersi, ma per contribuire. Significa chiedere percorsi di studio che formino davvero alla complessità dell’educazione. Significa domandare retribuzioni che permettano di scegliere questa professione senza rinunciare a un progetto di vita. Significa, o dovrebbe significare, per la cooperazione sociale, prima e più che per il Terzo Settore, portare nei luoghi della rappresentanza, anche istituzionale, la voce del lavoro, di quel lavoro educativo svolto ogni giorno nei servizi, nelle case, nei cortili, nei margini.
Stare dentro sì, ma per cambiare. Non per ottenere un lasciapassare, ma per spostare le soglie. Non per prendere posto, ma per costruire nuove traiettorie. In questo senso, gli albi possono essere un’occasione, a patto che sappiano rappresentare le istanze, non limitandosi a garantire apparati burocratici.
Conclusione – Una soglia che chiede voce
Considerato lo scenario che si è tentato di descrivere, l’entrata in funzione degli albi non riguarda soltanto i singoli professionisti che vi si iscrivono, ma l’intero sistema in cui quelle figure agiscono, vengono formate, riconosciute, contrattualizzate. Per chi dirige una cooperativa sociale che voglia continuare a chiamarsi tale, non può esserci disinteresse, né adesione acritica. Serve piuttosto una postura vigile, attenta, capace di leggere i segni, di interrogare i dispositivi, di anticiparne le conseguenze.
Gli albi introducono una soglia, non sono un approdo. Non garantiscono qualità, non costruiscono filiere né definiscono contenuti, non aiutano neanche ad alzare i livelli di retribuzione. Possono servire, certo, a stabilire una cornice. Ma ogni cornice, se non interrogata, finisce col diventare recinto. E ogni recinto, se non attraversato, finisce col coincidere con il paesaggio.
La cooperazione sociale, se vuole avere voce pubblica, deve imparare a riconoscere questi passaggi. Non per opporsi, ma per assumerli come terreno di confronto. Per abitare gli spazi normativi senza lasciarsi modellare dal solo loro perimetro. Perché i servizi che costruiamo ogni giorno meritano più delle categorie che li descrivono, e le figure che li animano chiedono più dei titoli che le classificano.
Non basta iscriversi. Non basta essere riconosciuti. Occorre esercitare parola, posizione, progetto. Non in alternativa agli albi, ma ben oltre la loro soglia.