Schwa, sì o no? C’è “ə” sulla strada per l’inclusione?  

Giu 7, 2024 | Opinioni


Laura Orsenigo. Giornalista professionista, brianzola, dopo diverse esperienze in tv, riviste di settore e web, dal 2018 collabora con il Giornale di Segrate. Mamma di tre figli, impegnata nel sociale sul territorio.


Se ne parla da anni, anche se forse solo negli ultimi tempi è diventata discussione mainstream. Giusto o no introdurre nella lingua italiana lo schwa, un nuovo fonema (“ə”) per indicare il genere neutro? Un argomento che accende gli animi e che, ogni volta che se ne parla, rischia di essere etichettati in una o nell’altra fazione. Ho cercato di farmi un’idea leggendo parecchi testi e opinioni. Perché se da una parte sono, come credo la maggioranza di noi, a favore di una società più aperta, inclusiva, in cui tutti e tutte possano sentirsi rappresentati, dall’altra ho qualche scetticismo riguardo a soluzioni drastiche, che entrano a gamba tesa nella lingua italiana, che, anche per il lavoro che svolgo, amo e cerco di trattare con la massima cura.


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Tra i vari testi ho trovato interessante, perché basato su argomenti direi scientifici, quello dello scrittore e linguista Andrea De Benedetti, autore del libro “Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo” (Einaudi). La sua posizione è chiara: il suo è un no all’introduzione del fonema, ma ho trovato sinceramente convincenti le sue tesi (che espone in questa intervista sul Giornale di Segrate). Obiettivo del libro è prima di tutto cercare di riportare il dibattito sul linguaggio inclusivo su un piano razionale rimuovendo le contaminazioni ideologiche e i fanatismi che rendono la discussione un campo di battaglia.

Secondo De Benedetti gli assunti su cui si basano le teorie a favore dello schwa derivano da false convinzioni, ad esempio sull’origine del maschile sovraesteso (cioè indicare con il genere maschile un insieme composto da uomini e donne), perché in realtà l’unico genere specifico nella lingua italiana, spiega il linguista, è il femminile. Il maschile, già dall’origine, era utilizzato in modo generico, promiscuo.

Ma è soprattutto sulla messa in pratica di questa “rivoluzione lessicale” che l’autore esprime forti perplessità, perché si tratterebbe di una vera e propria forzatura, che non nasce spontaneamente, come sempre succede nei cambiamenti linguistici, ma che viene imposta dall’alto. A che prezzo poi? Siamo sicuri che il fine, per quanto condivisibile, legittimi l’introduzione di soluzioni difficili poi da gestire nel parlato di tutti i giorni? Sarebbe uno sforzo titanico resettare la propria lingua con questo cambiamento: pensiamo ad esempio a tutti gli accordi linguistici con articoli, preposizioni, aggettivi, participi. Un processo complicato che, partendo da finalità inclusive, andrebbe invece a escludere una gran fetta della comunità dei parlanti, un vero e proprio paradosso.

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